Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, Un semplice incidente dell’iraniano dissidente Jafar Panahi è un viaggio, fisico e morale, nei meandri della colpa e della sete di vendetta orchestrato fra tragedia e dark comedy.
Un film politico che oscilla tra memoria e redenzioni forse impossibili (il finale è da antologia e scatena il dibattito), senso della giustizia e certezza della pena. Girato clandestinamente con attori non professionisti, Un semplice incidente inizia come un thriller sospeso nella notte. Su un’auto viaggiano padre, madre incinta e figlioletta che sbuca dal sedile posteriore con la luce del suo smartphone a illuminare l’inquadratura. In lontananza si vedono cani inseguire altre auto fino ad un rumore brusco che dà il via a questa storia di aguzzini e prigionieri, padri di famiglia e sposini.
Quell’auto andrà da un meccanico che riconoscerà nei passi anticipati dal rumore sinistro di una protesi quelli del suo carceriere che anni fa, dopo l’accusa di cospirazione al regime, lo privò di lavoro, moglie e dignità. Sequestrato in un furgoncino e scavata una fossa nel deserto per seppellirlo al meccanico (il magnifico poeta Vahid Moshaberi già apparso in Gli orsi non esistono) viene un dubbio. E se non fosse lui, visto che non confessa i suoi crimini, quell’uomo da punire che non videro mai in faccia?
Con l’aiuto di qualche vecchio prigioniero politico che ha subito la sua stessa sorte, Vahid carica sul furgone anche una coppia di sposini, la fotografa del loro matrimonio e un altro perseguitato dal regime che a differenza degli altri vorrebbe giustiziare subito il sedicente boia che chiamavano Gamba di legno.
Ideali da seppellire e segnali divini (C’è un motivo per cui Dio l’ha messo sul nostro cammino dice la moglie di Gamba di legno mentre in auto investono il cane), processi sommari e legge del taglione in un pamphlet che mette alla sbarra il regime degli Ajatollah non senza qualche forzatura (il parto improvviso), sequenze didascaliche e situazioni improbabili.
Una sorta di Aspettando Godot (citato) in chiave morale e politica e girato in un paesaggio da road movie, che se non risulta il film migliore di Panahi tiene alto il valore di un’opera civile, potente e necessaria. Col regista del Palloncino rosso e Taxi Teheran che per la prima volta dopo 15 anni decide di non mettere in scena se stesso e filma una donna senza l’hijab dopo l’avvento del Movimento Donna, vita e libertà.
In sala dal 6 novembre distribuito da Lucky Red