Dentro e fuori, sopra e sotto. In un bunker sotterraneo arredato come una casa di lusso (il film è stato girato nelle caverne della miniera di salgemma di Petralia in Sicilia, la più grande d’Europa coi suoi 80 km. di tunnel), vivono e sopravvivono, nell’autoinganno della felicità, i brandelli di un’umanità spazzata via da una catastrofe ambientale avvenuta 20 anni prima.
Madre (Tilda Swinton) ex ballerina del Bolshoy, padre (Michael Shannon) magnate petrolifero e figlio (George MacKay) che non hai conosciuto cosa ci fosse là fuori, si aggrappano ai rituali di un quotidiano esiliato e in precario equilibrio.
Nessun contatto con l’esterno da anni, protocolli di sicurezza da rispettare, limiti da non oltrepassare, un maggiordomo omosessuale, la migliore amica della moglie che nasconde segreti e un medico come compagni di stanza. Fino all’improvviso arrivo di una ragazza di colore (Moses Ingram) che scompagina relazioni e modus vivendi di quel pugno di personaggi costretti a fare i conti con se stessi e col mondo.
Aperto da un frase di T.S.Eliot da East coker, uno dei poemi che compongono i Quattro quartetti (Le case sono tutte scese sotto il mare, i danzatori sono tutti scesi sotto la collina) ed esordio al cinema di finzione del pluripremiato regista di documentari Joshua Oppenheimer, The end è un musical post apocalittico che costringe lo spettatore a specchiarsi nelle colpe dell’ultima famiglia al mondo mascherata dietro il carnevale delle apparenze (magnifica la sequenza dei festeggiamenti del Capodanno).
E così mentre il figlio scrive le memorie paterne e costruisce il diorama dei fatti storici che non ha vissuto e la madre tiene in ordine la casa nel tentativo di fermare il tempo (Ogni macchia che ignoriamo è il segno della nostra resa), si vagheggiano stelle cadenti, cumolonembi e cieli blu mai visti perché abbiamo sempre una scelta possibile e la contrapposizione noi/loro ha portato al collasso del pianeta Uomo.
Con qualcuno che sogna di annegare nella luce e teorizza il fascino del perdono mentre in quella nuova caverna di Platone si replica all’infinito la rappresentazione della famiglia che protegge, illude ed uccide.
Affascinante ed azzardato (in qualche momento il kitsch è in agguato), potente, coraggioso e discontinuo, il film di Oppenheimer, ispirato per le parti musicali all’epoca d’oro di Hollywood, brilla per forma (lode alla straniante eleganza delle scenografie di Jette Lehmann, già collaboratrice di von Trier in Antichrist e Melancholia) e rappresentazione allegorica (si dibatte di pericolo ecologico, spinte migratorie e capitalismo neo liberale dietro la facciata familiare che non assolve dalle responsabilità individuali) in 150’ che appesantiscono la fluidità di un’opera originale e complessa.
Con un cast da applausi e qualche momento musicale che lascia davvero il segno (la dolorosa ninna nanna dell’amica della moglie, il canto alla madre abbandonata della Swinton, il confronto tra i coniugi sui segreti mai confessati al figlio).
In sala dal 3 luglio distribuito da I Wonder Pictures