La potenza del cinema. Vedendo Happy Holidays del palestinese Scandar Copti, vincitore del Premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (come poi certi capolavori non passino per il concorso resta un mistero) vengono in mente i dibattiti da salotti televisivi e l’inutile propaganda politica che non tiene in conto le responsabilità individuali.
In 120’ esemplari per rigore della messinscena, precisione sociologica e ambientale, valori culturali e strategie politiche, ecco un documento, girato cronologicamente con 2 cineprese a mano e una troupe quasi invisibile, che si fa carne e sangue sotto i nostri occhi attraverso le storie intrecciate di quattro donne di stanza ad Haifa.
Un complesso di relazioni sullo sfondo di un Israele precedente agli eventi del 7 ottobre 2024 ma dove le tensioni fra arabi ed ebrei minano la convivenza delle due comunità.
Ed ecco Rami, un arabo-israeliano innamorato della compagna ebrea Shirley con la gravidanza anomala di lei che rischia di compromettere la loro unione; la sorella di Rami, la sensuale e indipendente Fifi (la prodigiosa Manar Shehab), che studia a Gerusalemme ed è coinvolta in un incidente d’auto coi genitori che cercano di lucrare sull’accaduto per coprire le spese del matrimonio della sorella dopo una disavventura finanziaria e Miri, la sorella di Shirley messa sotto pressione dalla madre affinché si arruoli nell’esercito israeliano.
Con Waid, un medico amico di Raimi a scompaginare le carte di questa tessitura narrativa che metta in campo culture, generazioni e identità a confronto. E il carico insopportabile (anche per chi è animato dalle migliori intenzioni) di un patriarcato che impedisce alle donne, tanto arabe quanto ebree, di disporre liberamente del proprio destino (l’ispirazione per Happy Holidays, dice il regista, è nata da una conversazione che ho sentito per caso da ragazzo con una mia parente che diceva paradossalmente a suo figlio, riferendosi alla moglie: Non permettere mai a una donna di dirti cosa fare).
Tra case in vendita e carte di credito bloccate, pestaggi (Un arabo che molesta un’ebrea è una minaccia alla sicurezza nazionale…) e referti medici scambiati (o forse no), insegnamenti scolastici (Sono i soldati che ci danno sicurezza ripetono i bambini in divisa in classe su input delle maestre), disturbi depressivi e amare disillusioni (Non meritiamo di essere felici afferma sconsolata la madre di Rami nel sottofinale), l’opera seconda del regista palestinese residente in Israele dopo Ajami (Camera d’Oro a Cannes e candidato agli Oscar) vive di non detti e cambi di prospettiva in un continuo ribaltamento esaltato da una sceneggiatura, divisa in quattro capitoli, che spiazza lo spettatore mostrando punti di vista diversi sullo stesso fatto visto precedentemente da un’altra angolazione.
Senza fare propaganda o peggio dividere i personaggi in buoni e cattivi, Copti, che ha impiegato cinque anni per la lavorazione del film e ha usato attori non professionisti ma di miracolosa intensità emotiva, ci regala un’opera vibrante e necessaria, dolorosa ed emozionante che parla di confini morali e legali e del peso schiacciante delle tradizioni e della Storia sull’individuo.
Mentre quel memorabile finale, ambientato durante la sirena dello Yom HaZikaron (il Giorno del ricordo isarealiano) è un inno alla speranza e a un futuro forse ancora possibile. Da non perdere.
In sala dal 3 luglio distribuito da Fandango