Un presente malinconico e incomprensibile, un passato ingombrante e, forse, un futuro ancora possibile. Sceneggiatore bugiardo, presuntuoso, inaffidabile e anche un po’ vanesio (Mi pento confessa all’avvocato dell’agenzia delle star al quale chiede un nuovo lavoro) Umberto Contarello- una delle penne più brillanti del nostro cinema- dirige, sceneggia (con Paolo Sorrentino) e interpreta se stesso per il suo esordio dietro la macchina da presa.
Autobiografia in maschera (La verità al cinema non esiste ci dice all’incontro stampa), film intimo e impressionista e finestra spalancata su un mondo in decadenza, L’infinito (il titolo che rimanda alla magnifica sequenza finale e inneggia ad un insperato happy end ) regala emozioni e meditazioni filosofiche in uno smagliante bianco e nero che trascolora in una scala di grigi (fotografia di Daria D’Antonio) sostenuto dalle musiche originali di Danilo Rea.
In una Roma notturna e plastica che rende il senso di smarrimento esistenziale del suo protagonista, Contarello si muove con passo lento alle prese con una figlia preadolescente (Margherita Rebeggiani, già ammirata in Settembre) che non lo capisce e lo vorrebbe frequentare solo da felice, una suora lavavetri che ammira incantato dalla finestra di fronte a casa sua e che regala grazia inaspettata, vecchi amori di ritorno (bellissimo l’incontro con l’amante costretta sulla sedia a rotelle) e un fedele maggiordomo che lo sopporta e lo stimola.
Camera fissa (un unico carrello nel film), sguardo dolente a caccia di epifanie illuminanti e vitali (Ho paura di sopravvivere…), il Contarello dell’Infinito è un uomo in bilico sul precipizio della nostalgia e intento a non impazzire.
Tra confidenze agli sconosciuti e allenamenti di rugby spiati di nascosto, chiavi di casa da regalare e cene a piazza Navona (Siamo invecchiati, come film che ci piacciono), manuali di sceneggiatura che teorizzano scene che non servono e allontanano la consequenzialità narrativa e il turning point obbligatorio (Le storie sono belle o brutte non funzionano come un rubinetto), serate da mantello e il ricordo di una madre a cui chiedere tanti perché sulla tomba. L’infinito è un film a caccia di stupore all’ombra di bilanci esistenziali da condividere.
La storia di un uomo che non ha più niente da dare ma da dire e che riflette lo straniamento e la difficoltà del nostro tempo ipertecnologico e scollegato dalla comunicazione autentica, quella che si fa con la parola.
Dedicato a Carlo Mazzacurati (padovano come lui e per il quale Contarello firmò le sue prime sceneggiature), coi Sillbari di Parise a fare da bussola artistica e pieno di frasi sentenziose che qui però, rispetto al cinema di Sorrentino, sono asciugate da ogni retorica e calzano a pennello sulla faccia e sul modus vivendi di Contarello, L’infinito è opera struggente e sentimentale, crepuscolare, ricercata eppure mai estetizzante, che definisce e illumina la vita di un fabbricante di bugie chiamato a fare i conti in pubblico con se stesso. Da vedere. Presentato all’ultimo Bif&st ma avrebbe meritato Venezia.
In sala dal 15 maggio distribuito da Piper Film