Vita e arte, storia privata e collettiva, bellezza contro brutalità. Duse, il nuovo film di Pietro Marcello scritto dal regista casertano con Letizia Russo e Guido Silei e passato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia non è un biopic.
Della leggendaria attrice teatrale (L’ottava meraviglia del mondo nuovo) vengono presi in esame solo gli ultimi anni di vita. Quelli che a causa delle difficoltà finanziarie causate dal fallimento della Banca di Berlino vedono l’artista, malata e sofferente, tornare sulle scene nel 1921 dopo 12 anni per ribaltare il concetto di teatro tradizionale.
Interpretata da una magistrale Valeria Bruni Tedeschi, ecco la Duse alle prese con colleghi (l’irascibile Ermete Zacconi di Mimmo Borrelli) e spasimanti lontani (il tempestoso legame sentimentale e artistico col magnifico D’Annunzio di Fausto Russo Alesi), una figlia in arrivo da Londra (Noémie Merlant che recita in italiano) e in conflitto con la sua assistente austriaca (Fanni Wrochna).
Mentre la Grande Guerra è appena finita e l’ombra nera del fascismo si allunga sull’Italia (all’arrivo in teatro il Duce si sente raccomandare di lasciare i manganelli al guardaroba…). Con l’arte che può salvarci e consolarci (Si fa come la guerra, col sangue, il sudore, il coraggio e la disciplina) e il teatro innalzato a spazio di verità e resistenza.
Un tempio immaginario e sognato nel quale non si vende l’anima in cambio del potere. Tra apparizioni e materiale d’archivio (la salma del Milite Ignoto che viaggia in treno nel novembre 1921 da Aquileia a Roma tra ali di folla plaudente alle stazioni) che come sempre fluiscono a meraviglia nel cinema di Marcello, Duse è il ritratto, intimo ed evocativo di una donna e di un’artista in bilico sul precipizio.
Lavorare, vivere e morire: tre cose che desidero fare appassionatamente. Il mantra della Duse, fiaccata da debiti e promesse indecenti di vitalizi che obbligano al silenzio artistico (Sei incapace di riconoscere un attore se lo trovi fuori dal palcoscenico la rimprovera D’Annunzio che la mette in guardia sull’offerta di Mussolini), è lo scheletro di un film che si ammira ma non si ama fino in fondo.
Così le emozioni sono spesso imbrigliate dalla forma accademica e teatrale di un impianto scenico rigoroso e ingombrante che sembra a tratti soffocare l’anima dei personaggi. Mentre il rapporto madre-figlia è sin troppo in ombra (bellissima la sequenza di Enrichetta e i bambini allontanati dal teatro su ordine della Duse alla prima) ed è il gusto per la rivelazione dell’arte recitativa a prevalere su tutto (si veda su tutte la bella sequenza dell’arrivo alle prove della Duse che si confronta con la giovane attrice).
Perché l’unico mare nel quale la Duse desiderava nuotare era il teatro (Il mio veleno e la mia cura) e per lei esibirsi significava sputare un pugno di chiodi in faccia al pubblico ogni sera. Tra pensieri che non si incatenano ed epifanie artistiche (l’incontro con Sarah Bernhardt), La donna del mare di Ibsen e i nuovi autori italiani da mettere in scena, copioni da interpretare (Spesso il problema è la battuta, non l’attore) e l’arrivo del cinema (irresistibile il dialogo della Duse col produttore volgare a cui si rivolge per finanziare il nuovo spettacolo), Duse vive di sussulti estetici, cortocircuiti musicali e vibrazioni d’animo (lo spaventoso Pinocchio letto dalla Duse ai nipoti prima di addormentarli) mentre la passione, il dolore e l’autenticità di Bella e perduta e Martin Eden restano lontani.
In sala dal 18 settembre distribuito da Piper Film