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lunedì 14 aprile 2014
di Francesca Spada
Chi resiste nella palude
Intenso monologo no-stop di Francesco Lande, in scena al Teatro Tor di Nona, fino al 18 aprile
Lo spettacolo di Francesco Lande, ispirato alla storia della propria famiglia, è il racconto di uno e di tutti, scava nel terreno acquitrinoso del nostro passato e riporta alla luce una pagina sporca di fango, sangue e sudore, rimasta sepolta troppo a lungo sotto cumuli di ipocrisie.
Un amarcord, un saggio e una ballata.
Attraverso il monologo non-stop, che assembla i pezzi di un vissuto doloroso, Lande ricostruisce le vicissitudini dietro la bonifica della paludi pontine durante la dittatura fascista, con la precisione matematica dell’ingegnere, la poesia virgiliana del contadino e l’ironia misurata dell’intellettuale.

È un flusso di coscienza collettivo che scorre impetuoso come la piena del fiume e si acquieta, d’improvviso, a meditare, a lasciare che le domande riecheggino per poi riprendere la sua furia di parole, visioni e memorie. Ma senza spingere furbescamente sulla provocazione, o accomodarsi sul testo, così denso, così articolato di umori, suoni e odori. Sembra di essere là, tra sterpi, cadaveri e zanzare malariche, con la fronte imperlatae la pelle bruciata dal sole, a imprecare contro i tedeschi, a ubriacarsi, a morire, mentre le stagioni si alternano e nessuno se ne accorge. Domani è un giorno uguale a ieri, asciugare e irrigare, senza sosta.

E poi il ritorno della speranza: il Dopoguerra, le ragazze in bicicletta con i loro vestiti a fiorie il bagno del sabato con l’acqua della vasca che si fa più nera a ogni figlio che vi si immerge. Un one man show che si pregia dell’essenza materica, fisica del racconto, che addentra lo spettatore in una bolla fuori dallo spazio, nella tridimensionalità della Storia, oltre i libri, i politici, le date e i trattati. In un’umanità perduta.
Vi si scorge un po’ di De Sica, nelle vicende private che si proiettano fuori dall’ambiente familiare e si scontrano con la realtà del tempo. In quegli (auto)scatti di dolceamara quotidianità che rievocano un Bianco/Nero d’autore, tra lirismo e cronaca.

Riflettendo la sobrietà e la lucidità dell’agricoltore sardo, che preferisce rifuggire dai cortei delle camicie nere, greggi belanti alla mercé di una caricatura, e analizzare impietosamente la propria condizione di lavoratore, di padre e di marito,il monologoindaga, fende e denuncia. Garbatamente, con la medesima compostezza di chi ha perso tutto.
Non è mai urlato. Persino quando i toni si fanno più accesi, la voce si ritira e smorza la tensione con un sorriso, chiede scusa.

Perché “quello là di Roma”, lui, “il rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale”, come lo definì Gramsci, macina braccia, gambe e polvere con il fragore letale della guerra, in nome di una divinizzata, auspicata distruzione di ciò che è stato. Sradica identità, annichilisce le differenze, ripudia le discromie. Ma la quercia no. La quercia sopravvive ai Volsci, ai Papali, ai Fascisti e alla terra secca. Immobile e sempre uguale a se stessa, idea che non muore, ben piantata a terra. Lei sola resiste nella palude.

Al Teatro Tordinona fino al 18 aprile.

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http://www.teatrotordinona.it

 
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