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domenica 5 novembre 2017
di Alessandra Miccinesi
Lynch, Premio alla carriera
Festa del Cinema, Sorrentino premia Lynch: "amo i sogni e il cinema riesce a esprimerli"

Parla di idee che fluttuano nelle stanze della mente come pezzi di un rompicapo. Schegge di pensieri che vengono lanciati dall’esterno e dall’interno. Ed è da questi frammenti che prendono vita le sceneggiature più affascinanti di David Lynch. Script che il regista statunitense, maestro nel sondare gli abissi della psiche umana, spaziando tra inconscio e metafisico, ha trasformato in altrettanti cult movie. Alla Festa del cinema di Roma sabato Lynch ha ricevuto il Premio alla carriera da un febbricitante Paolo Sorrentino. “Sarei venuto anche in barella per il regista che con la sua arte ci ha insegnato che l’inconoscibile e il mistero sono dentro di noi”.

Standing ovation alla consegna del premio, e applausi scroscianti durante l’incontro col pubblico che alterna confidenze sull’arte (“amo la pittura infantile, quella un po’ bruttina, e adoro Francis Bacon che distorce le figure e destruttura i fenomeni organici”) a sequenze di film che hanno fatto la storia del cinema: “Lolita di Kubrick è un film privo di difetti. Lo amo in tutte le sue espressioni: dall’ossessione di Humbert  all’evoluzione dei personaggi. Non importa come si sia arrivati a questa bellezza, è  un capolavoro. Viale del tramonto invece è un film triste, di desideri non realizzati: tutti i personaggi di questo film sperano qualcosa in un anelito che non viene realizzato”.

 
Tutt’altra atmosfera, poche ore prima, in conferenza stampa. Col cineasta di Cuore selvaggio e Twin Peaks che centellindo le parole, si era scaldato solo parlando di Meditazione Trascendentale ("la pratico da 30 anni ed è l’unica cosa oggi che ci tiene lontani dalla merda del mondo"), ed aveva risposto a una domanda sul caso Wenstein con una battuta ironica: “io coinvolto in uno scandalo del genere? Stay tuned" state collegati.

Mister Lynch, il suo amore per il cinema ha a che vedere con l’arte?
No. quando studiavo arte il cinema non mi interessava per niente. Non andavo a vedere i film.

Da dove nasce la sua ispirazione? Da Filadelfia, che amo per motivi tutti sbagliati: è una città sporca, corrotta, violenta , folle e sempre in preda al terrore. Amo la sua architettura e i colori intensi delle costruzioni, le strane proporzioni degli edifici e i mattoni coperti di fuliggine delle fabbriche. Questo è esattamente il mondo che troviamo in Eraserhead (La mente che cancella)

Dopo The Elephant Man, prodotto da Mel Brooks, De Laurentiis le ha proposto di girare Dune e Blu Velvet: è vero che su Dune fu il produttore ad avere l’ultima parola mentre su Velluto Blu il final cut è toccato a lei?
Firmai il contratto per Dune sapendo che non avrei detto l’ultima parola sul film, e accettai. Per Blue Velvet dissi che l’avrei girato solo col final cut. E questo è stato promesso e mantenuto da Dino, dal quale ho imparato anche a fare i rigatoni.

Qual è il processo di scrittura delle sue sceneggiature, e sul set è prevista l’improvvisazione?
Niente improvvisazione, ma si fanno prove. A volte nascono delle idee che vediamo sul nostro schermo mentale, le sentiamo coi nostri sensi e le scriviamo. Quando vengono rilette, queste parole fanno riemergere l’idea nella sua interezza.  Perciò è necessario rispettare l’idea originale e per farlo, tutti quelli che partecipano al processo creativo devono essere in sintonia.

Come si riconosce l’idea giusta?
(Ride) All’inizio sembri non avere idee, continui a non averne e poi improvvisamente ecco che arriva. Le idee arrivano da ogni parte, dal cinema ma anche dall’arte. Come artista, mi piace poter dipingere idee: a volte puoi coglierne alcune che puoi portare sulla tela, e questa azione provoca una reazione. Ecco la sinergia.

Esiste un collegamento tra i suoi film o tra quello che lo ha preceduto e il successivo?
Questo lo lascio dire ai critici. So solo che Strade perdute, Mulollhand Drive e Inland Empire parlano della città di Los Angeles

Il fascino di Filadelfia ce lo ha spiegato: cosa è che la cattura di LA?
Ho visto la prima volta Los Angeles nel 1970. Venivo da Filadelfia e arrivai di notte. La mattina seguente uscii dall’appartamento e vidi il sole. La luce meravigliosa di LA mi fece quasi svenire. Di questa città amo il fatto che non ha limiti. Offre la libertà di seguire i propri sogni e fare ciò che si deve fare. LA poi è la casa dell’età d’oro del cinema e per me quest’epoca torna ogni qual volta fiorisce il gelsomino.

Mulollhand Drive, nato come progetto tv, è poi diventato un cult cinematografico: avendo lavorato per il piccolo schermo con Twins Peaks 1 e 2, qual è la differenza a livello creativo tra piccolo e grande schermo?
Nessuna differenza, è la stessa cosa. La tv di oggi sta facendo passi da gigante su tutti i fronti: qualità del suono, immagini, etc.

Inland Empire è passato al New York City Festival in un’epoca in cui il lavoro sul digitale iniziava ad entusiasmarla: qual è la sua percezione oggi?
La celluloide ha una tecnica bellissima ma la pellicola si sporca, si rompe, è di difficile gestione. Il digitale si sta avvicinando alla qualità della pellicola, in più si possono fare milioni di cose dopo aver girato. Si sta schiudendo un mondo meraviglioso.

Tutte queste possibilità offerte dal digitale possono essere paragonate alla pittura?
Direi di sì, l’immagine si può manipolare proprio come la tela, e questo schiude infinite possibilità.

Eppure all’inizio, sia lei che Bertolucci vi dichiaraste contrari all’alta definizione perché ‘mostrava troppo e nascondeva il mistero’
(Pausa …) Amo Bernardo ma non ricordo questa conversazione. Tanti credono che il digitale sia troppo plastico e poco organico, ma col progresso della tecnologia ci sono delle cineprese che si avvicinano molto a una realtà organica.

Tra i registi che hanno sperimentato di più il legame tra cinema e sogno c’è Federico Fellini di 8 e ½.
Uno dei più grandi maestri di tutti i tempi che sicuramente mi  ha ispirato. L’ho incontrato due volte. Una volta a cena, con Silvana Mangano, Isabella Rossellini e Marcello Mastroianni. Era l’epoca in cui con Tonino Delli Colli frequentavo Cinecittà, e Fellini girava L’intervista. La seconda invece fu nel ’93. Io stavo girando una pubblicità e sempre Tonino mi disse che Fellini era ricoverato. Andai a trovarlo un venerdì sera. Ricordo che faceva caldo. Con Fellini, in ospedale, c’era solo la nipote. Entrai nella stanza: c’erano due letti singoli, e in mezzo Fellini su una sedia a rotelle, seduto davanti a un tavolino. C’era Vincenzo (Mollica, ndr) nella stanza.

Io mi misi a chiacchierare con
Fellini gli tenni la mano mentre lui mi raccontava  che era triste per quello che stava succedendo. Gli studenti e gli appassionati di cinema non parlavano più di lui, lo stavano dimenticando. Il loro entusiasmo era tutto per la tv. Il mondo stava cambiando e questo  lo rendeva triste. Uscendo dalla stanza lo salutai dicendogli che il mondo aspettava il suo prossimo film, ma lui mi salutò con un gesto della mano. Anni dopo Mollica mi confessò che Fellini disse di me “questo è un bravo ragazzo”.  Lo incontrai di venerdì; la domenica Fellini entrò in coma e due settimane dopo morì. 

Qual è per lei il legame tra sogno e cinema?
Amo i sogni e la loro logica, e il cinema è in grado di esprimerli. Sappiamo che i sogni sono esperienze sfuggenti, impossibili da dire a parole. Si può col linguaggio cinematografico. Io amo le astrazioni ma anche le cose concrete. Ed amo le storie che hanno entrambe le qualità. A volte si hanno sensazioni e pensieri che consentono di conoscere qualcosa ma sono difficili da dire. Un po’ come quando vuoi raccontare un sogno che hai fatto a un amico: anche se trovi le parole, lui non farà mai l’esperienza.


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