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martedì 10 gennaio 2017
di Claudio Fontanini
SILENCE
Martin Scorsese porta sullo schermo il libro di Shusaku Endo sui cristiani ’nascosti’
Un viaggio nella fragilità umana di fronte al mistero divino, una ricerca spirituale che analizza la forza della fede e il valore del dubbio, un confronto culturale e naturale tra mondi agli antipodi. Dopo quasi trent’anni di tentativi andati a vuoto (la folgorazione di Scorsese per il romanzo di Shusaku Endo- pubblicato in Giappone nel 1966 e dal quale è tratto il film- nasce nel lontano 1988
Un viaggio nella fragilità umana di fronte al mistero divino, una ricerca spirituale che analizza la forza della fede e il valore del dubbio, un confronto culturale e naturale tra mondi agli antipodi.
Dopo quasi trent’anni di tentativi andati a vuoto (la folgorazione di Scorsese per il romanzo di Shusaku Endo- pubblicato in Giappone nel 1966 e dal quale è tratto il film- nasce nel lontano 1988 quando, dopo una proiezione speciale de L’ultima tentazione di Cristo tenutasi a New York per i leader religiosi, al regista fu regalata una copia dall’arcivescovo Paul Moore) vede finalmente la luce cinematografica Silence, ambientato nel Giappone del 1633 (nell’epoca Kakase Kirishitan, quella dei ‘cristiani nascosti’ costretti all’incognito dopo che nel 1600 tra i 200 e i 300.000 giapponesi di tutte le classi  sociali si erano convertiti al cristianesimo) e progetto ambizioso di un regista cattolico e immerso nella pratica religiosa.

Complice l’età avanzata (“In questo momento della mia vita penso continuamente alla fede e mi pongo domande sulla debolezza e sulla condizione umana” ha detto Scorsese) ecco allora una sorta di gemello artistico e spirituale di Kundun (1997) nel quale il regista di “Toro scatenato” e “Hugo Cabret” seguiva la reincarnazione umana del Buddha della compassione.
Qui due missionari portoghesi (Andrew Garfield e Adam Driver) si mettono in viaggio nel XVII secolo verso il Giappone sulle tracce del loro mentore scomparso, padre Christovao Ferreira (Liam Neeson) che dopo aver abiurato il cristianesimo si è convertito al buddismo e ha sposato una donna giapponese.

Tra signori feudali e Samurai decisi ad estirpare la religione cristiana dal paese attraverso arresti e torture, tra villaggi dove nascondersi e professare il proprio credo e persecuzioni fisiche e morali, la ricerca di quell’uomo così vicino e lontano diventa per i due missionari l’occasione di un ripensamento dei propri metodi in un processo mentale di adattamento ad un mondo ostile che, paradossalmente, è capace di far rifiorire la fede oltre l’apparente silenzio di Dio.
Messe notturne celebrate in capanne che sembrano catacombe (“Dio ci vede lo stesso?” chiede un giapponese cristiano al missionario) e disperate ricerche di segni, condivisioni e taglie sui sacerdoti, tradimenti e assoluzioni (c’è anche un novello Giuda), storie di concubine e detti giapponesi (“Montagne e fiumi possono essere spostati, la natura umana no” dice al missionario prigioniero l’inquisitore che intende fargli rinnegare la propria fede), immagini sacre da calpestare e crocifissioni marine in un film dalla durata extralarge (161’) e che sfiora a tratti il manierismo.

Poteva essere una sorta di Apocalypse now religioso questo Silence e invece Scorsese, come se avesse paura della materia incandescente, preferisce rintanare il suo cinema potente e magniloquente nel cantuccio di un delicato intimismo che poco si addice alle sue corde espressive.
Troppo letterario e scritto (a sceneggiare i film con Scorsese c’è Jay Coks, l’autore de L’età dell’innocenza e Gangs of New York), Silence - girato in esterni a Taiwan- si lascia ammirare per l’impeccabile confezione tecnica (lode al direttore della fotografia Rodrigo Prieto e alle scenografie di Dante Ferretti) alla quale non corrisponde però altrettanta espressività narrativa.

Colpa di uno script che perde per strada uno dei due missionari salvo ripresentarlo dopo un’ora con un colpo di scena telefonato, di due attori giovani assai poco in parte (soprattutto l’ex Spider man sembra catapultato in una storia più grande delle sue potenzialità) e di una ripetitività di situazioni e dialoghi che diventa noiosa retorica. Ancorato ai fatti e poco disposto a sequenze visionarie necessarie in operazioni del genere, Scorsese relega il mistero e la sofferenza a soliloqui infarciti di voci fuori campo e improbabili apparizioni divine. E quel finale, per certi versi consolatorio, non contribuisce di certo a cambiare la sostanza di un film che si sforzandosi di trovare la giusta distanza finisce per annullare ogni emozione.   

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