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giovedì 22 settembre 2016
di Claudio Fontanini
Frantz
Parte come un melò e finisce in territori hitchockiani il nuovo film di Ozon girato in bianco e nero
L’uomo che visse due volte ovvero come rinascere attraverso l’arte della menzogna. Presentato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia in un rigoroso bianco e nero (è la prima volta che il regista francese non filma a colori), Frantz di François Ozon mette in scena ferite di guerra e cicatrici dell’anima aggiornando un testo teatrale del dopoguerra di Maurice Rostand già adattato per il grande schermo da Lubitsch nel 1931 col titolo Broken Lullaby (fu l’unico film drammatico del grande commediografo e il suo più grande fallimento).
Si comincia in una cittadina tedesca, siamo nel 1919, con una lunga camminata di una giovane donna (la meravigliosa Paula Beer) che si reca sulla tomba del promesso sposo- il Frantz del titolo- morto al fronte in Francia.

Come ogni giorno quel tragitto dalla casa dei suoceri (dove vive come una figlia) al cimitero è un percorso che materializza la distanza dal mondo reale da quello che si fa fatica ad accettare come nuovo nel nome di un ricordo che ossessiona e blocca.
Fino a quando su quella tomba arriverà a pregare anche un giovane francese (Pierre Niney) che dimostra di conoscere bene l’uomo scomparso in guerra (e i cui resti non sono peraltro sotto quella tomba). Che rapporto esiste tra i due uomini? Che reazioni sociali suscita quello straniero portatore di sentimenti forti e dolorosi segreti?
Accolto con diffidenza dal padre del soldato ucciso (“Ogni francese per me è l’assassino di mio figlio” dice scacciandolo da casa al primo incontro), Adrien s’insinua in realtà a poco a poco in quella famiglia facendo rinascere la speranza e la convinzione nel futuro attraverso una serie di racconti (veri o inventati?) sulla propria amicizia col figlio.

In un riuscitissimo gioco di specchi e di cambiamenti cromatici (dal b/n si passa al colore nelle sequenze in flashback e in quelle che immaginano o ricordano momenti di felicità), Ozon strizza l’occhio al Michael Haneke de “Il nastro bianco” in un film-simulacro, complesso e insinuante, che parte come un melodramma e finisce in territori hitchockiani.
Tra sensi di colpa e bugie necessarie  (“A cosa servirebbe la verità? Porterebbe solo altro dolore” dice in confessione il sacerdote alla giovane donna in cerca di perdono), ossessioni e linguaggi segreti, lezioni di violino e tentati suicidi, lettere desiderate e risposte tardive, leggi del desiderio e il rumore del vento tra le foglie, Verlaine e Manet (indimenticabile il finale del film sullo sconosciuto e modernissimo “Il suicida”). Perché se dobbiamo anche vivere per gli altri allora l’arte può anche aiutare ad attraversare lo specchio e a superare le sofferenze e le brutture del mondo. In ogni epoca.                

Nelle sale dal 22 settembre distribuito da Academy Two

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