Una cena di famiglia che si trasforma in una inesorabile resa dei conti affettiva e politica, cinque attori in stato di grazia diretti con mano sicura e sensibilità da una regista attenta ad ogni sfumatura e, dietro le quinte, la lunga mano di Paolo Virzì- qui nelle vesti di co-produttore con la sua Motorino Amaranto e amico di lunga data della Archibugi. Per capire la crisi
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Una cena di famiglia che si trasforma in una inesorabile resa dei conti affettiva e politica, cinque attori in stato di grazia diretti con mano sicura e sensibilità da una regista attenta ad ogni sfumatura e, dietro le quinte, la lunga mano di Paolo Virzì- qui nelle vesti di co-produttore con la sua Motorino Amaranto e amico di lunga data della Archibugi. Per capire la crisi del cinema italiano a volte basterebbe scorrere la filmografia di certi registi. Leggendo quella di Francesca Archibugi si scopre che dal suo ultimo film, l’intonatissimo Questioni di cuore con Kim Rossi Stuart, Albanese e la Ramazzotti, sono passati la bellezza di sette anni. Possibile che abbia voglia di cercare strade alternative alle commedia usa e getta o finto buoniste dei nostri giorni abbia la strada sbarrata?
Per fortuna a volte arrivano i soccorsi dall’estero ed ecco una magnifica pièce teatrale francese (Le prénom di Alexandre De la Atellière e Matthieu Delaporte diventato nel 2012 un film diretto dagli stessi autori ed uscito in Italia col titolo di Cena tra amici) fare da detonatore ad una sorta di remake nostrano che mantiene intatti personaggi e situazioni trasportandoli però nel nostro clima sociale (siamo a Roma, quartiere Pigneto) e in un acquario esistenziale nel quale i progressisti sono divenuti conservatori e all’interno della stessa famiglia s’intersecano vizi, illusioni e desideri repressi di un paese intero.
Ed ecco una coppia in attesa del primo figlio (un Alessandro Gassman a briglia sciolta e mai così vicino per resa artistica a certi ruoli cialtroneschi interpretati dal padre, è un agente immobiliare estroverso e pronto all’affare ad ogni costo mentre lei, l’ottima Micaela Ramazzotti che colpisce al cuore nella scena più bella del film, è una bella di periferia che ha fatto successo scrivendo un best seller piccante) e l’invito a cena a casa della sorella di lui (Valeria Golino insegnante frustrata e mal considerata dal marito Luigi Lo Cascio prof universitario precario e twittatore compulsivo). Ospite dell’allegra tavolata è anche Claudio (un convincente Rocco Papaleo), vecchio amico della famiglia ebrea Pontecorvo e musicista che vive sopra le nuvole.
Si aspetta l’inizio delle portate e intanto si discute sul nome del nascituro. Sarà proprio la rivelazione di quella nuova identità ad accendere la miccia di una guerra domestica combattuta a colpi di noi e voi tra ginnastica esometrica e soldi regalati di nascosto ai nipotini (“Non dite niente ai comunisti…” dice lo zio Gassman parlando dei loro genitori), gabbie mentali e sbandierate superiorità antropologiche, soprannomi rivelatori e nevrosi irrisolte, tempo che passa inesorabilmente (“Siamo cambiati tutti, prima non esiste più” afferma la Golino a chi vorrebbe fermare il tempo) e cori generazionali sulle note del Dalla di Telefonami tra vent’anni. Inframmezzato dai flash-back giovanili che ne raccordano caratteri e situazioni, il film dell’Archibugi ha un gran merito: quello di raccontare senza giudicare.
Così tutti i personaggi hanno le loro ragioni, più o meno nascoste, e il loro magnifico assolo che ne evidenzia le proiezioni mentali. Dialoghi taglienti e a mitraglia, acuta osservazione psicologica, tempi serrati e tre colpi di scena da non rivelare in un fuoco di fila di risentimenti e gelosie che fanno de Il nome del figlio una sorta di Carnage all’italiana di grande resa e sicuro divertimento. Curiosità: il parto finale è davvero quello della Ramazzotti filmato dalla Archibugi in presa diretta con l’attrice capace persino di sussurrare la battuta al momento della nascita. Nelle sale dal 22 gennaio distribuito da LUCKY RED
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