Quando l’amore si trasforma in ossessione. Succede a Mina (Alba Rohrwacher), italiana senza famiglia trapiantata a New York e alle prese con la sua prima gravidanza. Convinta sin dai primi mesi che il nascituro sia speciale, la donna arriverà a metterne in pericolo la vita nel tentativo di preservarlo dall’inquinamento del mondo
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Quando l’amore si trasforma in ossessione. Succede a Mina (Alba Rohrwacher), italiana senza famiglia trapiantata a New York e alle prese con la sua prima gravidanza. Convinta sin dai primi mesi che il nascituro sia speciale, la donna arriverà a metterne in pericolo la vita nel tentativo di preservarlo dall’inquinamento del mondo esterno. Nasce così col giovane marito americano (Adam Driver) una sorta di duello emotivo e culturale nel quale in ballo c’è il futuro di un bambino sottopeso e impossibilitato a crescere.
Tratto da Il bambino indaco, il romanzo di Marco Franzoso (Einaudi editore), Hungry hearts mette in scena la lenta trasformazione di un sentimento evidenziando i lati oscuri di un’anima divisa a metà. Alla ricerca della purezza assoluta, Mina finirà prigioniera dell’ideologia; smarrita nel vortice di un gorgo emotivo che la renderà incapace di vedere oltre se stessa. Ed ecco i rumori esterni visti come minaccia da scansare, quel cervo ucciso in sogno che si fa presagio di negatività e il rifiuto dei macchinari medici come manifesto della propria individualità (“Loro possono vedere ma non capiscono quello che vedono” dice al marito rifiutandosi di sottoporsi alle visite).
E intanto quel bimbo non aumenta di peso, non prende antibiotici e si cura con la medicina alternativa. Fino a quando il marito sarà costretto a rapire il figlio con esiti drammatici. Menù vegani e nausee mattutine, carezze e strattoni, accuse e tenere difese (“Non è matta, è insolita…” dice il marito alla madre parlando della moglie), inizio da commedia sentimentale (con quell’insolito approccio nella toilette maleodorante del ristorante cinese) e venature horror con atmosfere sinistre, grandangoli e sguardi allucinati.
Problematico, claustrofobico e trasportato sullo schermo da Padova a New York (con un doppiaggio italiano che appiattisce il tutto e annulla il decisivo straniamento culturale della protagonista), il quarto lungometraggio di Saverio Costanzo, girato in 16mm, conferma tutta l’abilità tecnica e l’abilità della messinscena del suo autore al quale fa però difetto stavolta un adeguato supporto narrativo. Così la storia di Mina, un po’ come il personaggio, si ritrae su se stessa finendo in un catatonico atto rivoluzionario che si rivela solo in potenza. Mai banale, coraggioso e poliedrico, Costanzo punta forte su un cinema fisico che le gracili spalle della Rohrwacher, nonostante la sua bravura un poco risaputa, stavolta non riescono a sostenere appieno.
Anche quel finale troppo esplicito e diretto (con annessa spiegazione morale dietro le sbarre) non giova all’insieme. Qualche sfumatura in più e magari quella madre e quel figlio- messi di fronte alla maestosità del mare dopo aver fatto il bagno insieme nella vasca del bagno- avrebbero reso più complici gli spettatori, chiamati sin lì ad una visione da referto medico più che da vera condivisione. Coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia per i due attori. Troppa grazia. Nelle sale dal 15 gennaio distribuito da 01
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