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domenica 19 ottobre 2014
di Alessandra Miccinesi
Richard Gere: "sentirsi homeless"
L’ex Ufficiale e gentiluomo veste i panni di un barbone nel film "Time out of Mind" di Oren Moverman
Un senzatetto con la barba lunga. Maleodorante e coi panni laceri, poche cose chiuse in un sacco della spazzatura e il fiato che puzza d’alcol. Facile a dirsi, difficile a farsi se si ha l’aplomb e il profilo di Richard Gere. Eppure il divo di Pretty woman l’ha fatto. Per girare il film presentato oggi al Festival Internazionale del Film di Roma  - Time out of Mind, di Oren Moverman – l’attore hollywoodiano è sceso nell’inferno degli homeless: barba incolta, abiti smessi, e un cappello in testa - irriconoscibile - Gere si è immerso nella realtà degli invisibili, arrivando a chiedere l’elemosina al Greenwich Village, passando inosservato.

"Ho allungato il braccio per ricevere monetine dai passanti e con mio stupore, nessuno mi ha riconosciuto, nessuno ha incrociato lo sguardo col barbone che ero diventato” ha detto Gere ai giornalisti, che stamani hanno accolto il film con freddezza e distacco.
Nessun applauso alla fine della proiezione, e qualche mugugno nonostante il coraggio dimostrato dalla star che si è messo al servizio di uno script duro e ostico. Una sceneggiatura senza fronzoli, che risale agli anni Ottanta. E che trasforma la storia di uno dei migliaia homeless di New York - un diseredato a Manhattan, senza più nulla: né casa, né famiglia, lavoro e amici -  nel protagonista di una storia universale: una storia di sentimenti.

Una vita come tante. Piena di silenzi, emarginazione, perdita della speranza, e smarrimento. Stati d’animo non facili da raccontare, quelli del protagonista, anche visivamente. La troupe c’è riuscita con riprese rubate, effettuate di nascosto e in fretta. Nessuna retorica delle immagini, situazioni vere. E soprattutto via i fronzoli. Campi lunghi in abbondanza, niente musica, e inquadrature prese con i teleobiettivi stile candid camera.
Perché Time out of Mind – che Gere interpreta e co-produce – è come leggere un poesia asciutta, in cui è il cuore della storia ad emergere dal fango.

Il film racconta il disagio di un uomo, George, che, complice la crisi economica ha perso il lavoro: sua moglie è morta di cancro e sua figlia, cresciuta dai nonni, non vuole più saperne di lui. Lentamente, sta scivolando in un inferno che nessuno vuole guardare, “perché ho capito che nessuno vuole essere contagiato da questa peste”.
Ci voleva uno sguardo cinefilo particolare, quindi, un uso particolare della mdp per poter osservare certe situazioni dall’interno senza snaturarle, cogliendo le sfumature invisibili ai più, e udire il non detto, il sussurrato. Solo allora si può comprendere ciò che viene taciuto. E se a parlare sono gli occhi, quelli di un uomo persi nel nulla, non c’è bisogno del dramma, delle urla, o del sangue: tutto diventa immediatamente chiaro.

Per dare spessore a certe dinamiche – lascia intendere Gere - per evidenziare i malesseri dell’animo umano nella difficoltà del vivere quotidiano, non servono effetti speciali. Meglio lavorare in sottrazione, dando al film un’impronta invisibile.
E mescolandosi ai senza tetto, per diventare uno di loro. La star è riuscita nell’impresa. “Di ricerche ne ho fatte tante perché il copione mi era rimasto nel cuore e volevo farne un film. Conoscevo bene la condizione dei barboni e le organizzazioni che danno loro ricovero. Solo a New York ci sono 60mila senza tetto, dei quali 20mila sono bambini: una cifra impressionante. Ma per legge tutte queste persone hanno diritto all’assistenza pubblica: un letto e due pasti al giorno. Per quel che ne so, NY è l’unico posto al mondo dove questo avviene. Vorrei contattare le Ong di Roma e d’Italia perché si possano conoscere queste realtà”.

Nonostante la sua preparazione al ruolo, ha avuto qualche sorpresa sul set?
Abbiamo girato in tempi strettissimi, solo 3 settimane, con pochi soldi e l’eventualità che sul set venissi scoperto. Abbiamo lavorato con teleobiettivi sistemati sui tetti, lontani da noi attori: e in molte riprese è lo spettatore che deve identificare il protagonista. Nell’unico giorno di prove fatto al Greenwich Village ho testato il pubblico di cinefili e intellettuali: potevo essere riconosciuto, nei panni del barbone, invece nessuno mi ha notato. Solo due afro americani, a Central Station, mi hanno salutato. E questo mi ha fatto pensare. Forse – riflette l’attore ad alta voce – l’esperienza di essere neri a NY ci dice che loro sono più attenti a ciò che li circonda, mentre i bianchi vivono chiusi nelle loro capsule, isolate dal resto del mondo a causa dei cellulari e della tecnologia”.  

Ma quanto è stato difficile, se lo è stato, calarsi nei panni di un homeless? “La mia tecnica di recitazione è sempre la stessa: tirare fuori il personaggio e sparire. Stavolta è stato diverso, perché non dipendeva dalla trama ma dai sentimenti. Time out of Mind racconta la storia di chi si trova fuori del tempo, e per me è una novità”.  

E nella scena in cui fa la questua, come si è sentito?La tradizione buddista-tibetana vuole che si tenda la mano agli altri per chiedere rispetto. Il monaco che ‘chiede’ offre a qualcuno l’opportunità di fare un’offerta che svilupperà l’altrui coscienza. Noi, invece, pensiamo che chi fa accattonaggio chieda solo per se stesso, soldi per ubriacarsi magari. Io faccio l’attore e in questo ruolo ho dato alle persone la possibilità di creare un merito positivo”.

Perché, ricorda l’attore, alla base del film c’è la storia: non qualcuno. “C’è un messaggio universale: un forte desiderio di appartenenza  a qualcosa, c’è il desiderio di trovare il proprio posto nel mondo, qualcuno di cui fidarsi. Succede ai senza tetto come a noi, e questo mi commuove” dice Gere, che vorrebbe spazzare via – proprio come si fa con un gesto della mano per allontanare ciò che disturba – l’idea di negatività legata agli homeless. Una sensazione provata sulla pelle.
Quando giravamo, sentivo che la gente non si avvicinava per evitare il senso di fallimento incarnato dal personaggio, ecco perché non abbiamo voluto dire troppo di lui”. Ed ecco spiegata – per chi avesse ancora qualche riserva - la scelta di non approfondire il passato del protagonista, accontentandosi di ciò che lui è oggi: un essere umano sofferente, un diseredato, un invisibile.

Un uomo vulnerabile che però, forse, ha ancora una chanche. Il finale aperto, in dissolvenza, lascia un alone di speranza.Troppo facile sarebbe stato ragionarci sopra e fare un film che spiegasse tutto: la facilità è un mondo che non mi interessa. Difficile è essere qui, vivere il momento” spiega Gere, che con la sua scelta di realizzare questo piccolo film imprime una variazione di percorso rispetto ad Hollywood
Credo che questo sia il futuro del cinema: il futuro dei film seri. Almeno per me. Oggi, gli script migliori sono quelli del cinema indipendente (11-15 mln di buget massimo) e la cosa curiosa è che questi film erano fatti anche dagli Studios: ora non più, perché nessuno ci guadagna … si può dire? Ecco, l’ho detto”.

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