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mercoledì 8 ottobre 2014
di Claudio Fontanini
IL REGNO D’INVERNO
Dal regista di Uzak e C’era una volta in Anatolia, un maestoso dramma sui bilanci di una vita
Un progetto cullato per quindici anni, il nume tutelare di Čechov a illuminare la scena e la forza di un cinema d’autore raro e prezioso. Giustamente premiato all’ultimo Festival di Cannes con la Palma d’Oro, Il regno d’inverno (Winter sleep) è l’ennesimo capolavoro del turco Nuri Bilge Ceylan, autore di magnifiche pellicole come Uzak (il film più premiato della storia del cinema turco)
Un progetto cullato per quindici anni, il nume tutelare di Čechov a illuminare la scena e la forza di un cinema d’autore raro e prezioso. Giustamente premiato all’ultimo Festival di Cannes con la Palma d’Oro, Il regno d’inverno (Winter sleep) è l’ennesimo capolavoro del turco Nuri Bilge Ceylan, autore di magnifiche pellicole come Uzak (il film più premiato della storia del cinema turco), Il piacere e l’amore, Le tre scimmie e C’era una volta in Anatolia.
Regista, sceneggiatore (qui i dialoghi sono scritti con la moglie, Ebru Ceylan), montatore e co-produttore, Ceylan realizza un’opera monumentale (durata 3h16’) che rimanda inevitabilmente al teatro russo dell’ottocento per spessore, carattere e forza e dei personaggi.

Un vecchio teatrante che si è ritirato da tempo dalle scene (“Essere attore significa essere onesto” dice l’imperturbabile Haluk Bilginer citando la visita di Omar Sharif) e gestisce un piccolo albergo (che si chiama Othello…) nel cuore dell’Anatolia, la sua giovane moglie (Melisa Sözen) con la quale ha un rapporto difficile e che vive distante da lui in un’ala separata dell’appartamento, una sorella che soffre per un doloroso divorzio e sentenzia giudizi.
Bastano un pugno di personaggi scolpiti nella pietra ed ecco catapultato lo spettatore nel mondo delle illusioni e dei tragici bilanci di vita.

Lento e inesorabile, maestoso e letterario nei suoi lunghissimi dialoghi increspati da qualche sottolineatura ironica, Il regno d’inverno è un film da assaporare con mente sgombra e voglia di mettersi in gioco. Quasi un saggio cinematografico della potenza della parola che basta a se stessa in un susseguirsi di schegge esistenziali che mettono in gioco speranze e ricordi, relazioni di anime e incomunicabilità.
Un film nel quale per oltre due ore sembra non accada nulla e che poi manifesta con assoluto rigore l’impotenza spirituale e i presentimenti di vite nuove alle quali si affacciano i protagonisti dopo un percorso di espiazione morale.

Vite pianificate e scene indimenticabili (la cattura del cavallo bianco, le scuse imposte al piccolo nipote dell’imam dopo un lungo viaggio a piedi sotto la neve), autoinganni e benevolenze (“Che c’è di male ad essere teneri?” dice il protagonista), indigenze viste come volontà divine e discussioni filosofiche (che significa ‘non opporre resistenza al male’?),  conflitti creativi, egoismi mascherati e soldi bruciati come ne L’idiota di Dostoevskij. Per scoprire che l’inganno è il nostro destino e solo la forza del perdono forse potrà salvarci.

Girato per due mesi in un angolo di mondo che si fa metafora delle nostre coscienze (indimenticabile quella coltre bianca che ricopre l’intero villaggio nell’ultima sequenza, e che  porteremo a lungo nel cuore) e per sei settimane in un teatro di posa per una maggiore libertà nel dosaggio della luce, il film di Ceylan è un po’ come la sonata n.20 di Schubert che si ascolta.
Come usare uno stesso tema apportando leggeri cambiamenti e minime variazioni capaci di dare nuovo senso all’insieme. Una vera e propria esperienza cinematografica dalla quale si esce arricchiti e responsabilizzati. Come spettatori e persone.
Nelle sale dal 9 ottobre distribuito da PARTHENOS



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