San Pietroburgo, 1893. La salma di Pyotr Tchaikovsky (Odin Biron), deposta in un feretro nella camera ardente, prende improvvisamente vita all’arrivo della moglie Antonina Miliukova (Alyona Mikhailova). Sei odiosa, il nostro non è mai stato amore dice alla donna il celebre compositore russo.
E’ il potentissimo inizio, in un magistrale piano sequenza, uno dei tanti, de La moglie di Tchaikovsky, il film di Kirill Serebrennikov che mette in scena il disastroso matrimonio della coppia in una suggestiva ossessione d’amore che diventa febbrile soggettiva.
Elegante e tormentato, intimo ed estenuante (2h23’ sono davvero troppe), il nuovo film del cineasta russo dissidente- presentato a Cannes 75 in concorso- sa cogliere le sfumature psicologiche e i rapporti di potere in un’epoca nella quale le donne non erano altro che un nome scritto sul passaporto del marito.
Aspirante musicista più giovane di lui di 8 anni, Antonina, che non conosce per fama Tchaikovsky, decide che quell’uomo sarà suo marito. Lettere d’amore e pedinamenti, incontri di conoscenza programmati e finalmente il sì dell’uomo, in difficoltà finanziarie e spinto alla decisione più per mettere a tacere le voci sulla sua omosessualità che per convinzione affettiva (Non ho mai amato una donna in vita mia, dovete accontentarvi di un amore fraterno mette subito in chiare le cose Tchaikovsky).
Macchina da presa incollata al viso della sua straordinaria protagonista, Serebrennikov indaga sui diritti del genio e su quelli del cuore in un melodramma visionario (la sequenza di Antonina alla stazione con partenza e arrivo mancato del marito che si succedono vale il film) cupo e potente che non lascia di certo indifferenti.
Con le vite che si intrecciano ai tasti di un pianoforte e i banchetti nuziali che sembrano funerali, una scena di sesso che finisce con un tentativo di strangolamento e una serie di crudeli bugie che faranno di questa donna, morta in manicomio nel 1917, un simbolo di coraggiosa e impotente resistenza. Un’ostinazione sfociata in follia che sbandiera il bisogno assoluto di non vedere naufragare il proprio sogno.
Mentre Serebennikov immagina le conseguenze dell’amour fou (nella storia vera i due, dopo due settimane non si videro mai più) di quella separazione che non sfociò mai in un divorzio (all’epoca possibile solo ammettendo le proprie infedeltà o quelle del coniuge).
Un capolavoro formale (la messa in scena ricorda, per cura dei dettagli e resa fotografica, i film di Visconti) che tra camicie stregate e figli abbandonati, umiliazioni e allucinazioni, sbanda in un paio di sequenze (Antonina contornata da una sfilata di aspiranti mariti ‘normali’ e nudi, la masturbazione dell’amante moribondo) senza intaccare l’esemplare lezione di stile cinematografico.
In sala dal 5 ottobre distribuito da I Wonder Pictures