“Dopo aver letto la sceneggiatura di questo film, sulla copertina ho scritto: questo script ha le zanne. Non sapevo ancora come fare, né con chi, né dove cercare i soldi per fare il film. Ma Dallas Buyers Club mi aveva azzannato”. Morso al cuore da una storia che ci riporta agli anni Ottanta e ai primi casi di infezione Hiv, ma soprattutto graffiato dal personaggio – l’emaciato Ron Woodroof, texano sboccato e omofobo – che lotterà contro le case farmaceutiche e il gigante della FDA per avere accesso a cure alternative, Matthew McConaughey è a Roma per parlare del bellissimo film di Jean Marc Vallée che uscirà nelle sale il 30 gennaio distribuito da Good Films. Pellicola messa in cantiere cinque anni fa e che, dopo aver messo d’accordo pubblico e critica, ha raccolto sei nomination agli Oscar. Di cui una meritatissima per Matthew McCounaghey che per questo ruolo ha già portato a casa un Golden Globe.
Molti rinvii prima di realizzare il film: dica la verità, qual è stato il problema? Prima di tutto, i soldi. I finanziamenti svanivano continuamente ma né io né Jean Marc Vallée abbiamo mai mollato, anche quando tutti dicevano che non ce l’avremmo fatta. Eravamo determinati e questo ci ha dato la spinta. Cinque settimane prima dell’inizio delle riprese i soldi sono nuovamente spariti. Non abbiamo mollato. Io avevo già perso venti chili, qualcuno aveva parlato di posticipare ma abbiamo fatto un piccolo miracolo, e messo insieme soldi necessari.
Da Killer Joe a The Wolf of Wall Street cosa è cambiato nella sua carriera: le scelte, le offerte, o sono solo i 40 anni? È una combinazione dei tre elementi. Fino a 4 anni fa ero soddisfatto della mia carriera ma volevo qualcosa di più. Ho deciso di ricalibrare il mio rapporto col mio lavoro. La mia vita prima era più avventurosa della carriera, perciò ho dato una scossa alla carriera. Gli script che mi arrivavano parlavano di film che potevo fare con facilità: avevo bisogno di una vera sfida. Volevo un ruolo che mi facesse sentire mancare il terreno sotto i piedi, così ho detto no a moltissimi film d’azione, commedie e film romantici. A furia di dire no, hanno smesso di offrirmi ruoli. Mia moglie aveva detto che sarebbe successo. Ma soldi in banca ne avevo, l’affitto lo potevo pagare e da mangiare a tavola continuavo a metterlo. Così ho aspettato un anno, nel frattempo è nato il mio primo figlio e ho fatto il papà.
E poi, che è successo? “E’ successo che sono diventato una buona idea per alcuni registi, come Friedkin (Killer Joe) e Soderbergh (Magic Mike). Esaurito il filone delle offerte e del silenzio c’è stato un ripensamento nei miei confronti. Più che un re-branding però, un rifacimento del marchio, c’è stata una cancellazione del marchio: un-branding. 40 anni è il limite intorno a cui tutti hanno nuove idee e nuove aspirazioni. Così ho chiuso la mia casa di produzione cinematografica e la casa discografica. Voglio solo essere un attore a ingaggio. Ma la cosa importante per me è la famiglia. Quanto più un uomo si sente sicuro a casa, tanto più è in grado di volare alto.
Perché Dallas Buyers Club spaventava tanto i produttori? E’ stato rifiutato 137 volte – precisa -. Quando qualcuno decide di investire in un film, gli studios dicono si pensando all’arte ma vogliono riguadagnare ciò che hanno investito. E se nel rigo di presentazione di un film un produttore legge: ambientazione d’epoca, dramma sull’Hiv ed eroe omofobico, pensa che non rivedrà i suoi soldi.
Perdere 23 kg e rimanere energico sul set, stato difficile? No. Il mio è stato un dimagramento militante, ottenuto con precisione specifica e sotto consulto medico. In quattro mesi ho perso 2 chili a settimana, mi sono chiuso in casa, ho fatto vita da eremita, niente vita sociale né ristoranti. Intorno a me c’erano solo cose di cui si sarebbe circondato Ron in Dallas Buyers Club. Sorprendentemente, quanto più perdevo potenza dal collo in giù tanta ne guadagnavo dal collo in su: dormivo pochissimo, ero in piedi alle 4 del mattino e avevo una energia pazzesca nella mente. Proprio come Ron mentre il corpo rinsecchiva la sua voglia di vivere aumentava. E’ successo anche un amico malato di cancro: quando il corpo perdeva forza la sua mente diventava come un uccellino nel nido che aspira al cibo e alla vita.
Qual è stato il suo ruolo della svolta e dove sta andando il suo futuro? Il lavoro degli ultimi anni è tutto un cambiamento, a partire dal ruolo drammatico in The Lincoln Lawyer (di Brad Furman) ben accolto da pubblico e critica, che riporta indietro a un film che ho fatto qualche anno fa, A time to kill (Joel Schumacher, anno 1996). Più che di una destinazione, il futuro è parte di ciò che faccio: amo mettermi a testa bassa e lavorare. Amo il processo di realizzazione di un film, più che vedere un film. E mi piace l’idea di concentrarmi quasi fosse una ossessione sul ‘mio uomo’, sul personaggio. Finché non arriva qualcuno che mi dice “ok hai finito, puoi andare a casa”.
Ambisce al nuovo James Bond? Non ne so nulla.
Cosa le è rimasto addosso di Ron Woodroof? Questo: se vuoi una cosa devi fartela da solo. Interpretare questo personaggio me lo ha ricordato.
Come è stato il suo rapporto con i colleghi, Jared Leto e Jennifer Garner? Con Jennifer ci conoscevamo già, ma Jared l’ho incontrato solo dopo aver finito il film. Il giorno dopo la fine delle riprese ci siamo presentati. Non l’abbiamo fatto prima perché non c’era tempo di chiacchierare d’altro che non fosse il film, e non ci interessava farlo. Ogni giorno andavamo a lavoro e incontravamo i nostri personaggi. Il bello di questo mestiere è vivere in una bolla in cui sei qualcun altro. In 25 giorni di riprese abbiamo solo lavorato, guardando dall’interno all’esterno il resto del mondo.
Hollywood adora le trasformazioni dei belli in brutti, secondo lei la nomination sarebbe arrivata anche senza i 23 chili in meno? Per me, spingersi oltre può essere espressione del sé ma non sempre è arte: in questo film è la storia a prendere il sopravvento. Io ho perso tanto peso e qualcuno avrà avuto un choc vedendo la locandina ma quando il pubblico guarda il film non vede più Matthew McConaughey secco ma Ron Woodroof. La prima volta che mi sono rivisto ho pensato: sembro un rettile. Poi ho iniziato a seguire la storia di un personaggio vero, un uomo reale, e il pubblico lo percepisce perché questo film lascia qualcosa, è di grande impatto.
Come vive l’attesa della notte degli Oscar? Non ho aspettative ansiose, mi godo il momento. Intanto sto parlandovi di questo film, poi andrò in Inghilterra e in Germania a parlare ancora dell’esperienza di realizzazione di Dallas Buyers Club. Ma il film mi precede, è lui che va avanti. Io sono qui oggi a parlare ma lui è arrivato prima di me, lui parla da solo, resta attaccato alla pelle della gente e io ne sono estremamente orgoglioso: per come è stato realizzato, per i costi (solo cinque milioni, ndr) è candidato come miglior film. Non mi stancherei mai di parlarne.
Il protagonista lotta contro le case farmaceutiche per il diritto di curarsi in modo alternativo, lei che ne pensa? Se qualcuno ha una malattia terminale perché impedirgli di provare l’alternativa? Medicina e business, quando si incrociano, portano sempre a zone grigie. So di persone che assumono farmaci alternativi con buoni effetti mentre per altri sarebbero state meglio quelle approvate dalla FDA. L’argomento è attuale in Italia ma anche in America, specie per la riforma sanitaria approvata da Obama. Ed è questa la cosa particolare di questo film: è ambientato nell’86 ma la sua rilevanza è attuale.
La comunità gay in America come ha accolto il film? Molto bene, tanti sono venuti da me per dirmi che ricordavano di aver perso fratelli amici negli anni Ottanta. In quel periodo, l’argomenti Hiv era tabù, essere ammalati di Aids una vergogna, ti trattavano come un lebbroso. Oggi non è più così, e questo film è importante anche per le nuove generazioni.
Che ne pensa della sua candidatura all’Oscar come non protagonista in The Wolf of Wall Street? ma io non ho fatto Wolf – si schernisce - ho lavorato solo cinque giorni. E’ candidato Leonardo DiCaprio che di candidature ne ha già avute tante. Posso dirvi una cosa, però, quando ho scoperto che Scorsese voleva darmi un ruolo ho ricordato che all’università nel 92 io ho studiato i suoi film, e dopo venti anni mi sono ritrovato ad andare a casa sua per parlare di lavoro con lui. La mia scena in Wolf è come un fulmine. Dopo aver fatto una breve ricerca ho preparato il personaggio, molto ironico, e l’ho provato davanti a Scorsese a cui è piaciuto subito. Sul set, dopo 5 riprese, non parlavamo neanche più: ci esprimevamo in musica. La scena è stata girata in una sola mattina. The Wolf of Wall Street non l’ho ancora visto ma giorni fa ho incontrato Scorsese e gli ho solo detto “Ciao, ci vediamo agli Oscar”.
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