Questo film di Jacques Audiard con Tahar Rahim è un dramma carcerario originale e potente, che ha ricevuto il Gran Premio della Giuria a Cannes 2009, ha fatto razzìa di César 2010 (l’Oscar francese), dove ha avuto ben nove premi su 13 nomination e per la prima volta un doppio riconoscimento per l’attore protagonista, nonché giovane promessa maschile, precedentemente insignito con l’European Film Award 2009. Era il favorito, almeno in Europa, per l’Oscar al miglior film straniero, però è stato sorpassato in extremis dall’argentino El secreto de sus ojos di Juan José Campanella (13 Oscar argentini), che nel vecchio continente non è stato ancora visto, tranne che in Spagna dove ha vinto due premi Goya.
Ma Un prophète (titolo originale) è molto più di un film carcerario, perché racchiude in sé anche il dramma di formazione, il crime movie, la metafora sul potere (dentro come fuori dal carcere) e, soprattutto, l’impatto dirompente e la constatazione amara della nostra esistenza che erano i punti di forza dei classici del noir francese e del maestro Jean-Pierre Melville.
Asciutto, duro e crudo ma senza eccessi né luoghi comuni, Il profeta vanta almeno due grandi interpreti, sia la rivelazione Tahar Rahim che il veterano (e qui inedito) Niels Arestrup, nel ruolo del boss còrso Cèsar Luciani.
Condannato a sei anni di prigione, il diciannovenne Malik El Djebene (Rahim) è un giovane analfabeta apparentemente senza affetti né futuro. In carcere, Malik sembra il più giovane e fragile di tutti (un microcosmo multietnico, freddo e violento). Preso di mira dal leader della gang còrsa Luciani che spadroneggia in galera quanto fuori, Malik è costretto a svolgere numerose ‘missioni’, prima fra tutte quella di uccidere il capo della banda degli ‘arabi’ - con un raccapricciante taglio alla gola - pena la sua vita. Una volta avuta la fiducia del boss, il giovane si fortificherà, capirà come districarsi con rara (e nascosta) astuzia in quell’inferno apparentemente sobrio e tranquillo, ed imparerà addirittura a leggere e a scrivere, sostenuto dal fantasma dell’ucciso. Però sotto la sua apparente sottomissione, il coraggioso ed imprevedibile Malik, imparerà alla svelta, e - conquistata l’uscita per andare a lavorare - diventerà una sorta di alter ego del capo mafioso, anzi, a sua insaputa, pian piano si trasformerà a sua volta in un leader più spietato del primo.
Due ore e mezza di grande cinema per il capolavoro di Jacques Audiard, figlio d’arte (di Michel, geniale sceneggiatore e ‘dialoghista’) alla sua quinta opera cinematografica (Sulle mie labbra quella più nota in Italia), che tiene inchiodato lo spettatore alla poltrona dall’inizio alla fine e senza tempi morti, tranne, forse, nel pre-finale.
Da un’idea di Abdel Raouf Dafri, e dal suo copione scritto con Nicolas Peufaillit, Audiard ha riscritto con Thomas Bidegain, una sceneggiatura di ferro che narra l’irrefrenabile ascesa di un nessuno che poco a poco comprende che solo il potere lo aiuterà a sopravvivere e poi a conquistarsi un’esistenza fuori.
“Malik rompe gli schemi - conferma il regista - non è il solito hooligan. Il film segue soprattutto il suo percorso mentale, una mente che lavora e che mostra una straordinaria capacità di adattamento, che il personaggio sfrutterà in ogni modo: all’inizio per salvarsi la pelle, poi per sopravvivere e migliorare la sua condizione e infine per raggiungere un livello superiore di potere”.
Nel cast anche Adel Bencherif (Ryad), Reda Kateb (Jordi, lo zingaro), Hichem Yacoubi (Reyeb), Jean-Philippe Ricci (Vettorri), Gilles Cohen (professore), Antoine Basler (Pilicci), Leila Bekhti (Djamila), Pierre Leccia (Sampierro), Foued Nassah (Antaro), Jean-Emmanuel Pagni (Santi), Frédéric Graziani (direttore del carcere) e Slimane Dazi (Lattrache).
Nelle sale dal 19 marzo distribuito da Bim in 270 copie.