Riottoso, dolente, malinconico ma coraggiosamente sempre pronto se il re chiama. E’ un mercenario. Ma uccide pensando. Per questo può anche succedergli di scegliere di non uccidere, di deviare, di cercare un altro destino. E’ Alatriste che forse non è nato per fare il soldato ma lo diventa nella Spagna del XVII secolo e noi a questo punto lo incontriamo nelle Fiandre, poi a Madrid dove l’impero agonizza, poi alla corte di Filippo IV, poi sulle tracce di due misteriosi uomini da uccidere.
E’ Viggo Mortensen che non ha paura di essere per alcuni ancora Aragorn, il re del Signore degli Anelli e basta: “Chi vuol legarmi a quel ruolo lo faccia pure. Ma a me diverte cambiare epoca, cambiare abito, cambiare linguaggio, perché penso che l’eclettismo per un attore sia fondamentale. Penso che gli attori migliori siano quelli che vogliono cambiare, che sono disposti a mettersi sempre in gioco, che sono disposti a imparare, mentre un attore diventa noioso nel momento in cui smette di interessarsi alla vita e di rischiare”.
Così il quarantanovenne Viggo Mortensen - che ha appena finito di girare il film di David Cronenberg, Eastern Promises, con cui è tornato a lavorare dopo A History of violence - ed è a Roma per la presentazione del film di Agustìn Dìaz Yanes, Alatriste. Il destino di un guerriero (già visto alla scorsa Festa del Cinema di Roma) e che sarà nelle sale il 22 giugno prossimo targato Medusa ed è stato tirato fuori dalla saga di Arturo Pérez-Reverte e raccontato come dentro una tela di Velàzquez (Goya per scenografie, costumi e direzione artistica), e che di certo tra lavoro di attore, di pittore, di scrittore e di musicista non si annoia affatto e, tra una ripresa e l’altra, appunta, legge, scatta fotografie scrive libri e poesie, incide dischi (nove album finora ed altrettanto libri fotografici e di poesie) e si occupa anche della sua casa editrice, la Perceval Press, perché è certo che “tutte le forme d’arte fanno parte di uno stesso albero, tutte sono interessanti; ma purtroppo per scoprirle e conoscerle davvero la vita che conosciamo è troppo breve e questo mi intristisce non poco”.
Ma, al di là dell’Arte con la maiuscola e della vita nella loro generalità, che cosa è stato Alatriste per lui?
“Io l’ho ammorbidito dandogli le mie debolezze personali. Gli ho dato la mia amicizia e lui mi ha dato la sua”.
E Enrico Lo Verso, l’altro mercenario, l’antagonista del film, quello che vuol portare la sua missione di morte sino in fondo: “Per noi attori fare un film è come fare un viaggio con sconosciuti che diventano amici e fratelli, mentre i film diventano alla fine album di fotografie e pezzi di cuore, come si dice. Poi io penso che già il regista ha in mente un personaggio diverso da quello tracciato dagli sceneggiatori e, a sua volta, l’attore capisce ciò che il regista vuole ma vi mette qualcosa di personale, molto di lui, e ciò che appare sullo schermo è un compromesso tra ciò che è stato scritto, proposto e recitato. Per questo ogni personaggio dipende da chi lo fa. Io sarei stato un Alatriste diverso ma, alla fine, l’unica regola è non giudicare il proprio personaggio”.
Ma che cosa cambia dentro un kolossal come questo?
“E’ ancora più straordinario che in un piccolo film perché in un kolossal ci sono più livelli di lettura: oltre le battaglie che attraggono tutti, c’è molto da scoprire e la sfida sta in questo. E’ qui che il lavoro dell’attore si fa ancora più importante perché spetta anche a lui far andare oltre lo spettatore, spingerlo oltre i primi livelli” dice Lo Verso.
E Mortensen: “Non cambia molto nel piccolo o nel grande a patto che le cose funzionino. Se non funzionano tutto è faticoso comunque, anche se ci sono momenti difficili su ogni set. Questo è certo un film ambizioso, molto ambizioso per essere un film spagnolo. E’ un film-kolossal ma è anche un film intimista, un film pieno di domande, qualcosa di molto prezioso che, io credo, diventerà un modello per il futuro”.
Ma se questo è la guerra sul set, la guerra nella realtà è un’altra cosa: “La solita stupidaggine, la solita follia” dice Lo Verso.
“La guerra, oggi come allora, implica delle persone che come Alatriste vivono di guerra, vivono sui campi di battaglia, poi tornano a casa, poi magari ritornano sul campo di battaglia, non per la bandiera perché la guerra è, appunto, una follia ma solo per orgoglio, per non abbandonare i compagni. La nazione è un’idea e basta: sono le persone, con i loro rapporti interpersonali, a fare un paese e sono le persone che mi interessano” aggiunge Mortensen.