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giovedì 5 settembre 2024
di Claudio Fontanini
IDDU
I pizzini di Messina Denaro nel film di Grassadonia e Piazza con Germano e Servillo
La vita in un pizzino. Segregato in un casa bunker che condivide con una vecchia e fedele amica (una spaesata Barbora Bobulova), Matteo Messina Denaro (Elio Germano) riceve e invia missive in Sicilia da ultimo grande latitante di mafia, programmando affari ed elargendo aiuti familiari.
La vita in un pizzino. Segregato in un casa bunker che condivide con una vecchia e fedele amica (una spaesata Barbora Bobulova), Matteo Messina Denaro (Elio Germano) riceve e invia missive in Sicilia da ultimo grande latitante di mafia, programmando affari ed elargendo aiuti familiari. 

Intanto, dopo alcuni anni di prigione, Catello (Toni Servillo), ex preside, sindaco ed assessore espulso dalla massoneria sogna di tornare nel giro che conta (c’è un vecchio albergo in demolizione da ristrutturare) con l’aiuto del suo figlioccio a cui ha fatto da padrino alla cresima. Peccato che i servizi segreti lo intercettano e gli chiedono di aiutarlo a catturare Matteo pena una nuova condanna.. 

Inizia così una sorta di doppio e triplo gioco dove verità e menzogna si confondono in un film che mette in scena i rapporti padre-figlio (naturali ed acquisiti) e l’ambiguità del mondo criminale attraverso un andamento narrativo che si appoggia sin troppo sull’improbabile scambio epistolare tra quei due uomini in cerca di se stessi. 

Liberamente ispirato a fatti accaduti (La realtà è un punto di partenza non una destinazione recita la didascalia iniziale e la sceneggiatura si rifà al carteggio tra il latitante e l’ex sindaco di Castelvetrano), Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza- concepito anni prima della cattura del boss mafioso, ambientato nel 2004 e in concorso a Venezia- è uno strano oggetto filmico difficilmente collocabile in un genere. 

Tra vuoti esistenziali e capretti sgozzati come prove di iniziazione al male, tombaroli a Selinunte (il furto dell’Efebo) e rassegnazione filosofica (Degenerare è il nostro destino dice Iddu al senatore), finestre abusive e taralli duri come il gesso, puzzle da completare e vigne incendiate, il nuovo film di Grassadonia e Piazza (che tornano a dirigere a sette anni da Sicilian Ghost Story e a 11 da Salvo, il loro magnifico esordio dietro la macchina da presa) ha andamento lento e salti di registro stilistici e narrativi (il meglio è nei duetti familiari al vetriolo tra Catello e la moglie, la magnifica Betti Predazzi) che sfiorano il grottesco senza mai farne una bandiera stilistica. 

A metà tra il cinema civile e politico di Elio Petri e il grottesco del Ciprì di E’ stato il figlio (anche lì protagonista  Servillo), il terzo lungometraggio dei due registi e sceneggiatori non trova mai un centro e una direzione convincente finendo per perdersi in mille rivoli che il confuso montaggio di Paola Freddi contribuisce ad alimentare.

 Un problema di script che l’ottimo cast (ci sono anche Antonia Truppo, Fausto Russo Alesi, Daniela Marra e un cameo silente di Tommaso Ragno) non riesce a sollevare fino in fondo. 

Così tragico e ridicolo, paradossale e realistico faticano a convivere nei 122’ del film (troppi) e non bastano qualche battuta centrata (Gli ultimi rimasti a leggere libri sono i carcerati dice Catello), la sequenza del supermercato come ufficio postale dei pizzini nascosti nel pesce e la bella confezione (lode a scenografie, trucco e alle musiche di Colapesce) a sollevare le sorti di un film che viaggia col freno a mano tirato arrivando alla stazione del risaputo (l’equilibrio precario ma vitale Stato-mafia). La prima volta insieme sul set di Servillo e Germano meritava ben altro esito. 

In sala dal 10 ottobre distribuito da 01 distribution

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http://www.01distribution.it

 
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