Un poliziotto tormentato, un serial killer che dopo aver ucciso le sue vittime lascia lettere sul caos della vita, una figlia tradita, un’indagine umana e un non luogo (riprese in un Lazio che fa rima con Stati Uniti) che diventa una terra desolata dove espiare le proprie colpe.
Dopo il passaggio al 74mo Festival di Berlino e l’uscita nelle sale a luglio scorso, arriva su Sky e Now dal 27 novembre Dostoevskij, la prima e attesissima serie in 6 episodi (tutti disponibili on demand) ideata, scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo, che continua, sulla scia di America Latina, il loro ultimo film del 2021, il ritratto di uomini alle prese con la malattia del vivere e i tormenti esistenziali di un passato che riflette sensi di colpa e fantasmi da sconfiggere.
Nove omicidi in un anno, nessun nesso e nessun movente. Tra prove di grafologie, indizi sommari e sporadici interrogatori, la ricerca del colpevole gira a vuoto. Come la vita di Enzo Vitiello (un Filippo Timi mai così bravo e sulle orme del Jack Nicholson de La promessa di Sean Penn), filmato ad inizio serie davanti ad una fila di flaconi di pastiglie e con una lettera di addio pronta a essere letta.
E’ un uomo che ha perso tutto, convive col dolore dell’assenza (la figlia, Carlotta Gamba, che non vede da anni) e ha scelto di perdere anche se stesso ma che in quell’omicida colto ed efferato vede se stesso nella personale visione del mondo. Sarà una telefonata del suo capo Antonio Bernardini (il magnifico Federico Vanni) a riportarlo in vita e a rompere quelle regole del gioco che forse sono la chiave per arrivare alla verità.
Tra dolori e numeri (Tutto inizia da qui), orfanotrofi e infanzie negate (ogni riferimento a Dario Argento non è puramente casule), notti troppo lunghe e tentazioni pedofile, poliziotti ambigui (Gabriel Montesi è l’ultimo arrivato che predica nuovi metodi investigativi), maledizioni e cartomanti, Dostoevskij è un’opera livida, ruvida e sgradevole (c’è anche una colonscopia con anestesia che diventa visionaria) che ha il merito di non inseguire le mode pedinando invece ad ogni costo le ossessioni e la personale poetica di due dei registi più interessanti del nuovo cinema italiano.
Siamo sporchi da più di 20 anni, puzziamo di male dice Bernardini a Vitiello in quella che potrebbe essere la frase manifesto di una serie che spiazza e conquista, commuove e spaventa cercando un canale di comunicazione, con lo spettatore e i suoi personaggi, che significa vita. Perché in Dostoevskij (il titolo si riferisce al soprannome del serial killer) il presente terrificante è forse la via per un futuro migliore, dove i corpi potranno essere liberi senza bisogno di bruciare.
Allucinato, esplicito e metafisico, Dostoevskij, girato in pellicola 16mm, mette in scena l’orrore del quotidiano (come in ogni opera dei D’Innocenzo) col narratore di Favolacce che qui sembra dettare le pagine degli scritti di quel serial killer che libera dal male con la morte come ispirazione.
Faticoso entrare nel clima della serie (davvero ostica per tempi dilatati e ritmi la prima ora) ma impossibile uscirne poi, con un dolore e una consapevolezza che restano nello stomaco, nella testa e negli occhi dello spettatore a lungo dopo quel flusso di coscienza selvaggio e liberatorio.
Con qualche dialogo sentenzioso di troppo e sequenze a contrasto (la colazione mattutina e il giro al parco giochi tra Timi e la figlia tossica ritrovata; la coppia di innamorati che visita la casa in vendita di Vitiello) che lasciano il segno. Perché in quella città dei figli sbagliati abitiamo tutti noi. Il finale aperto sul fiume lascia spazio ad una seconda stagione che, conoscendo il rigore e l’impegno dei due fratelli romani, non arriverà a breve.