Testa e cuore, passione e impegno civile. Forse era inevitabile che Michele Riondino, uno degli attori italiani più bravi e capaci di battersi sul serio- con i fatti- per le giuste cause, scegliesse per il suo esordio dietro la macchina da presa un tema scabroso e che riguarda da vicino la sua città, Taranto.
Presentato con successo alla Festa del cinema di Roma nella sezione Grand Public, Palazzina Laf racconta infatti del primo caso di mobbing perpetrato in Italia ai danni di 79 lavoratori specializzati dell’Ilva e confinati nel luogo del titolo, una sorta di reparto lager dove l’annientamento psicologico dell’essere umano era al centro del progetto con la finalità del demansionamento e delle dimissioni.
Un vero e proprio caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro e che Riondino, qui regista ed attore, affronta con giusto e indignato cipiglio abbinato ad un tono grottesco e farsesco (viene in mente il Fantozzi di Villaggio) che dipinge l’atmosfera dei reietti (tra di loro c’è anche Vanessa Scalera in un piccolo ruolo di grande spessore) costretti a non far nulla in quelle interminabili giornate lavorative.
Siamo nel 1997 e a tessere le fila della storia è Caterino (Riondino), uno dei tanti operai che lavorano all’Ilva. Indolente e passivo, vive in una masseria caduta in disgrazia per la vicinanza col polo siderurgico e frequenta una giovanissima fidanzata con la quale sogna di trasferirsi in città.
L’occasione gliela forniscono dai vertici aziendali il subdolo Basile (Elio Germano). Riferire le intenzioni dei sindacalisti, pedinare i colleghi che partecipano agli scioperi e fare da informatore al padrone (Paolo Pierobon). Arrivano una macchina nuova, la promozione a capo squadra e la possibilità di frequentare quella palazzina che scambia per il Paradiso dei nullafacenti e che invece scopre sulla propria pelle essere vicino all’Inferno.
Scritto con Maurizio Braucci e frutto di interviste fatte ad ex lavoratori Ilva e confinati, Palazzina Laf riporta in vita il cinema politico e impegnato dei Rosi e dei Petri, con Riondino che disegna un affresco sociale teso e carico di dolore e una città, figlia del disinteresse, sacrificata sull’altare del capitale (Perché accanto alla più grande acciaieria d’Europa non c’è nemmeno una fabbrica di forchette? si domanda retoricamente un operaio).
Con termini come privatizzazione, ristrutturazione e riorganizzazione per assetto produttivo che suonano sinistri e indicano la via senza ritorno nella guerra tra fatturato e posti di lavoro.
Sui titoli di coda le struggenti note de La mia terra, il brano inedito di Diodato scritto per l’occasione.
In sala dal 30 novembre distribuito da Bim