Gli zingari sono sempre stato un problema. E’ l’incipit de Il seminatore, il bel romanzo di Mario Cavatore dal quale ha preso spunto liberamente Giorgio Diritti per il suo nuovo film, Lubo, passato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia.
Lo scontro etnico e la paura del diverso in un viaggio alla riconquista dell’amore perduto che si dipana lungo venti anni e quasi tre ore di durata.
Nomade e artista di strada (bellissima la sequenza iniziale con la pelle dell’orso finto che si apre dando la vita al protagonista del film), Lubo (Franz Rogowski, il Joaquin Phoenix europeo, impressionate la somiglianza) viene reclutato a forza dall’esercito elvetico nel 1939 per difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca.
Allontanato dalla moglie (che poi scoprirà morta) e dai suoi tre figli piccoli che in quanto jenish (la terza popolazione nomade europea dopo i Rom e i Sinti) vengono strappati a forza alla famiglia e condotti ad un programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die kinder der landstrasse, finanziato dalla Pro Juventute, una fondazione filantropica che dietro la facciata umanitaria nasconde una campagna di ispirazione nazionalista), Lubo inizia la sua personale odissea nel tentativo di ritrovarli e riabbracciarli.
Assumerà una nuova identità (quella di un mercante di gioielli e stoffe austriaco), imparerà a guidare una macchina (E’ come montare un cavallo: passo, trotto e galoppo sono le tre marce), incontrerà donne affascinanti nelle quali cercare lo sguardo amorevole di chi ha perso (Ama in lei tutte le donne e lei in tutte loro gli annuncia la profezia jenish), metterà al mondo un altro figlio con una cameriera italiana emigrata in Svizzera (magnifica Valentina Bellè) e verrà condannato a 12 anni di reclusione.
In mente sempre quel passato perduto in un film di memoria e identità che affascina e seduce per il rigore formale della messinscena che non esclude il calore emotivo.
Tra fughe notturne nei boschi e denti d’oro, giochi di prestigio e vittime di guerre che rubano la vita, orologi persiani e lettere mai lette, cannocchiali puntati verso il futuro e fisarmoniche mute, il quinto lungometraggio di Diritti, a tre anni da Volevo nascondermi, miscela storia, politica, avventura e sentimenti in 175’ che non lasciano certo indifferenti.
Magari qualche passaggio temporale risulta un po’ troppo brusco (soprattutto nella parte centrale) ma il merito di portare alla luce una vicenda di persecuzione contro le minoranze poco conosciuta (si stima che nel programma, interrotto solo nel 1973, furono coinvolti quasi 2000 bambini) da parte di una nazione democratica e civile come la Svizzera da sempre considerata esempio virtuoso nel rapporto cittadini istituzioni vale la visione.
In sala dal 9 novembre distribuito da 01