Un vecchio contadino e una bambina proiettata nel futuro, il mondo rurale e quello metropolitano di una grande città europea. Vive di opposti Orlando, il nuovo film di Daniele Vicari presentato fuori concorso al 40° Torino Film Festival e girato tra Bruxelles e l’Italia con protagonista uno straordinario Michele Placido in uno dei ruoli più belli della sua lunga carriera.
Scritto dal regista con Andrea Cedrola e dedicato ad Ettore Scola (Negli ultimi anni della sua vita abbiamo condiviso l’esperienza della scuola Volontè e ci siamo ritrovati spesso a parlare del passato e del futuro del cinema italiano a fronte di un presente pieno di possibilità non adeguatamente sfruttate scrive nelle note di regia Vicari), il film è una favola moderna che mette in scena il primo viaggio fuori dal suo paese sull’Appennino laziale di un 75enne solitario, aspro, ostinato e di poche parole costretto a recarsi nella capitale belga alla notizia della richiesta di aiuto del figlio, emigrato contro il suo volere 20 anni prima, e con cui non parla da allora.
Arriverà troppo tardi per salutarlo l’ultima volta ma in compenso conoscerà Lyse (Angelica Kazankova, recitazione un po’ meccanica), la nipote 12enne che non sapeva di avere e con la quale stabilirà poco a poco un inaspettato contatto umano. Così diversi, così uguali, Orlando e Lyse si fanno simbolo di un mondo senza coordinate, abitato da uomini invisibili e proiettato verso un falso progresso scambiato per felicità.
Con quel vecchio con la quinta elementare e la sigaretta perennemente in bocca che scopre il fallimento professionale del figlio (sognava di aprire un ristorante ma si è dibattuto tra mille lavoretti saltuari), tira fuori dalle tasche cucite della giacca i 2700 euro di arretrati del condominio (il padrone di casa è nero e bussa alla porta…) e s’inventa facchino per una ditta di trasporti nell’attesa di sistemare la situazione con la piccola nipote.
Che ha una madre che non l’ha riconosciuta alla nascita e inizia ad affezionarsi a quel burbero nonno che gli parla di uva fragola appena colta e suona l’organetto mentre lei gli da lezioni di buone maniere. Restare fedele alle proprie origini (Sono sabino, non ciociaro rivendica Orlando al padre italiano di un dipendente dei servizi sociali) o cambiare vita per sostenere la bambina?
Il dilemma di Orlando, indeciso se affidare o meno Lyse a una famiglia adottiva, accompagna la seconda parte di questo film austero e intimo che somiglia per certi versi a quel Compagna di viaggio (1996) di Peter Del Monte nel quale due generazioni a confronto scoprivano impreviste affinità.
Co-produzione Italia-Belgio, Rosamont con Rai Cinema e Tarantula Belgique, Orlando, punteggiato dalle musiche a contrasto di Teho Teardo (l’arrivo di Placido a Bruxelles sembra l’inizio di un western), fotografa con precisione i ritmi e i bisogni (gli stessi, inconsapevolmente) di mondi agli antipodi ma chiamati a darsi la mano nel nome della sopravvivenza dell’umanità.
Opera di sguardi e di rughe che indicano la strada da percorrere, il film di Vicari, autentico e generoso negli intenti un po’ meno nella resa (quelle mascherine indossate o meno in modo drammaturgico), soffre di una lunghezza eccessiva (122’) che dilata oltremisura i silenzi e le solitudini dei due protagonisti.
E quel finale, sin troppo preparato (l’attacco di nervi della bambina) e didascalico, scioglie nella commozione il realismo e la durezza di tutto il film. Altro che telefoni e internet, l’unica connessione possibile è quella con l’amore.
In sala dal 1 dicembre distribuito da Europictures