Attore, autore della sceneggiatura (insieme al regista Rocco Ricciardulli) e produttore. Per il ritorno nella sua Puglia, Riccardo Scamarcio si tuffa anima e corpo in un film che, come in una sorta di western contadino, mette in scena la voglia di emancipazione e il richiamo della terra.
Girato a Gravina in Puglia con location che diventano veri e propri personaggi di una storia ambientata alla fine degli anni ’50, L’ultimo Paradiso- esordio dietro la macchina da presa del lucano Ricciardulli- racconta della lotta tra un bracciante agricolo (Scamarcio) e lo spietato latifondista del territorio (l’ottimo Antonio Gerardi).
Il primo, Ciccio, impenitente donnaiolo nonostante moglie (Valentina Cervi) e figlio di 7 anni lo aspettino invano ogni notte a casa, si innamorerà proprio di Bianca (la brasiliana Gaia Bermani Amaral), la figlia di Cumpà Schettino, facendo precipitare gli eventi dopo velate minacce e tentativi di conciliazione andati a vuoti.
Raccontare di più non si può perché a metà film un colpo di scena cambia radicalmente le carte in tavola facendo di questo nobile melò, che miscela sentimenti e diritti lavorativi (Noi zappiamo la terra e noi facciamo il prezzo! urla Ciccio gidando la rivolta), un ritorno al passato che fa rima con bilancio esistenziale.
Il Sud aspro e indifferente, la voglia- o almeno il tentativo- di provare a ribellarsi alle regole imposte da pochi a discapito della collettività, due famiglie che nascondono segreti e rimorsi (Non c’è cosa più brutta che dare speranza a gente come noi dice il padre a Ciccio che non intende rassegnarsi come lui) e una storia d’amore che illude e condanna.
Ispirato a una storia vera, L’ultimo Paradiso dà il meglio di se nella prima parte, quella che privilegia ambienti, facce e natura a un susseguirsi degli eventi che sconfina in un finale da dimenticare.
Così tra sguardi complici e rassegnati (bel dialogo in chiesa sul concetto di peccato tra Scamarcio e la Cervi), amplessi nel fienile e libri di Pavese in valigia (La luna e i falò), apparizioni e canzoni francesi (Que reste til de nos amours di Charles Trenet), incidenti sul lavoro (magari al Nord…), musiche spesso invadenti e un’ingenuità di fondo che mina il comportamento di alcuni personaggi, il film di Ricciardulli ha il difetto di mettere troppa carne al fuoco (altro colpo di scena in sottofinale) come se non credesse fino in fondo al suo nucleo originale.
Teso e concentrato per un’ora il film si sfilaccia così con l’entrata in scena di un personaggio da non menzionare e che si carica sulle spalle il compito impossibile di far quadrare i conti col passato.
In programmazione dal 5 febbraio su Netflix