Luca Ronconi porta in scena al Teatro Argentina il romanzo “sensualmente metafisico” di Witold Gombrowicz, pubblicato nel 1960. In una villa decameroniana della campagna polacca, dove la guerra scatenata da Hitler riecheggia in lontananza come una cornice appena accennata, Witold (l’io narrante affidato alla superba interpretazione di Riccardo Bini) e l’amico-nemesi Federico (un Paolo Pierobon kubrickiano), annoiati e non più giovani, tentano con ogni mezzo di scatenare la passione tra i due ragazzi che abitano nella magione: Enrichetta, la figlia dei padroni, e il fattorino Carlo.
La loro brama si nutre inizialmente di piccoli e insignificanti gesti di complicità tra gli adolescenti, per poi spingersi, incontenibile, fino all’estremo ultimo atto. Attraverso gli occhi affamati e inquisitori degli attempati protagonisti, continuamente dentro e fuori la fabula, narratori interni ed esterni che si guardano prima di guardare l’altro, il testo racconta l’oscenità, secondo l’autore frutto marcio dell’incompatibile eppure irrefrenabile gravitazione tra il corpo rugoso e mellifluo della vecchiaia, così indecente nel suo manifesto decadimento, e il fiore perverso, voluttuosamente incontaminato della giovinezza.
Dio, arte, nazione e proletariato. Federico è l’iconoclasta che scompone con il rigore del medico legale, non per diletto, ma per curiosità scientifica, il cadavere dei quattro principi cardine su cui ruota la società polacca e, universalizzando, la tradizione europea dell’Ottocento. Dio, dogma assoluto e totalizzante che riflette e include gli altri tre elementi basati sull’unità (una forma, una cultura e una forza-lavoro), contro il dinamismo violento dell’istinto e il polimorfismo sincopato della natura.
Federico, colui che “non fa altro che comportarsi”, è azione e logica, causa e effetto mascherati da diavolo. Ha il potere di svilire i valori, sconsacrare il sacro, demonizzare la santità, con un magnetismo mefistofelico che trova il suo acme durante la rappresentazione della funzione religiosa. La messa come messa in scena, in sua presenza diventa solo l’orgiastico cerimoniale del nulla. Un nulla monotono, anestetizzante che addormenta tutto, tranne i sensi. La sensualità della pièce, di fatto, si tocca e si vive pur non essendo esplicitata, se non con la liberatoria masturbazione di Witold, grottesca e surreale.
Di fatto, nella realtà sdoppiata, sezionata dall’alter ego-opposto di Gombrowicz, la pornografia, quell’ossessione metafisica per l’erotismo e i misteri alchemici del sesso, è l’esigenza prima dell’individuo, che scopre se stesso non nell’incastro, nello scambio fisico di due intimità. Bensì nello sguardo. I personaggi sono scrupolosi osservatori che concentrano la tensione erotica sull’atto del guardare. Il momento dell’amplesso, che arriva nutrito solo di immaginazione, diventa sfogo dell’immorale che ritorna morale, ristabilendo gli equilibri. È igiene dello spirito, necessario riciclo della carne. La sua oltraggiosa vicinanza alla morte, in senso tanto trascendentale quanto fisiologico, lo rende un piccolo assaggio della fine.
Non stupisce, dunque, che all’approssimarsi dell’epilogo (del dramma e dell’esistenza) il desiderio mai realizzato si faccia sempre più logorante, che nella “bruttezza”, così la definisce Witold, della maturità si aspiri con crescente vigore alla bellezza levigata e aspra dell’immaturità (sessuale e intellettuale). Ma è un sistema che vale anche al contrario. Carlo e Enrichetta, così abbozzati e caricaturali in quella fissità del volto e della posa, così perfetti per l’esperimento di Federico, non sono essere puri né vagamente eterei. Anzi, la loro corruzione passa per il “contagio” con il mondo adulto di cui sembrano conoscere tutto, di cui vogliono tutto.
E persino l’integerrima Amelia, madre cattolicissima del fidanzato della ragazza, è parossisticamente turpe nella mania di convertire Federico, al quale anela tra gemiti di dolore e di piacere. Sono pedine sulla scacchiera che si ribellano al giocatore-regista dentro uno schema costruito per paradossi, perché la misura è quanto di più lontano dall’essenza caotica delle cose. E l’eros non è che la proiezione di questo caos.
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