Chiusura con retrogusto amaro per il Festival Internazionale del Film di Roma, che oggi ha presentato in concorso Another Me, thriller psicologico con sfumature horror, diretto senza piglio né credibilità da Isabelle Coixet. Pellicola sgangherata che a tratti sfiora il ridicolo e incentrata sull’eterno tema del doppio – tessuto narrativo affascinante da cui tantissimi registi sono stati tentati: uno su tutti, il maestro Alfred Hitchcock – che sia doppia personalità, visionarietà o semplice ossessione, insomma, la faccenda del doppio ‘invasivo’ che turba, disturba e confonde, mescolando le carte in tavola (e nella psiche di chi guarda), nel film della Coixet in alcuni momenti provoca risate, anziché brividi.
Ed è un peccato, perché i temi forti che punteggiano la storia ci sono tutti: dalla malattia al tradimento, dalla mania di persecuzione alle presenze che aleggiano, misteriosamente, rendendo inquieta l’atmosfera.
Purtroppo manca il lavoro sui personaggi, i profili psicologici sono totalmente assenti e la suspense neanche lontanamente provocata, anche se il cast è apprezzabile: si va da Ryfs Ifans a Jonathan Rhys Meyers, da Claire Fontaine a Geraldine Chaplin (l’unica che regala qualche dubbio e concede uno scarto allo spettatore), da Sophie Turner a Gregg Sulkin.
Gli attori, non caratterizzati e abbandonati come figurine al vento, non riescono a salvare il film, mediocre e pasticciato, che ha a disposizione solo gli effetti sonori e visivi (altalene che dondolano nella notte, lugubri sottopassi, nebbia fitta, foto da incubo, ascensori mal funzionanti, silenzi opprimenti e vetri che misteriosamente si crepano) per evocare a una falsa inquietudine, penalizzata da uno script - ripetiamo - mai credibile, e a tratti ridicolo.
La storia ruota intorno al disagio di Fey, studentessa adolescente che – dopo la grave malattia diagnosticata al padre – inizia a sentirsi spiata, osservata a distanza e ‘invasa’ nella sua privacy da una misteriosa presenza che le somiglia in tutto e per tutto, e che lo spettatore vede materializzarsi come un’ombra sul muro e nei riflessi di specchi appannati e vetri che scricchiolano. Nell’ambito di una recita scolastica, a Fey viene affidato il ruolo della protagonista femminile nel Macbeth: personaggio ambito anche da un’altra studentessa, gelosa della ragazza, che manifesta apertamente il suo livore.
Incubi ripetitivi e inquietanti presenze, ascensori difettosi e colpe inconfessabili, fotografie rivelatrici e punti di sutura. Nonostante ciò, il pubblico non viene mai tirato dentro e coinvolto nell’intreccio di una vicenda da brivido che ruota su se stessa, apparentemente senza sapere in che direzione muoversi, e in cui i dettagli che emergono un po’ alla volta sono banali o incredibili, e sortiscono l’effetto opposto al climax che ci si aspetterebbe da un thriller psicologico.
Il plot parte definitivamente per la tangente dopo che Fey, scoperta la tresca che sua madre ha con l’insegnante di recitazione (i due si appartano in auto, ben visibili agli occhi del marito di lei che li spia dalla finestra) ha la conferma che la presenza ‘fisica’ da cui sente di essere tormentata c’è, esiste, e vuole prendere il suo posto nella vita vera. Non è solo una fantasia, insomma, è reale.
Senza voler svelare troppo di una sceneggiatura comunque mediocre e di una pellicola mal sviluppata, che sul set mescola psicologia e fantasmi senza centrare un solo colpo nel bersaglio - anche se nelle intenzioni della regista Another me doveva turbare, sconcertare e affascinare lo spettatore -, ci chiediamo perché tanti bei film passati al festival in altre sezioni non abbiano trovato posto in Concorso. Per dirla con Nanni Moretti... continuiamo così, facciamoci del male.