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martedì 12 novembre 2013
di Alessandra Miccinesi
I CORPI ESTRANEI
Un film coraggioso che mette in scena il pudore e la dignità degli uomini. Dirige Mirko Locatelli
Uomini soli. Che siano padri italiani alle prese con figli piccoli gravemente ammalati, o ragazzi figli della primavera araba costretti a fare i conti con l’intolleranza e la difficoltà di accoglienza, fa poca differenza. Conta il risultato, che - almeno a giudicare dal tiepido applauso ricevuto alla proiezione stampa del film - premia “I corpi estranei” per il coraggio tematiche di sofferenza: fisica, psicologica e morale

Uomini soli. Che siano padri italiani alle prese con figli piccoli gravemente ammalati, o ragazzi figli della primavera araba costretti a fare i conti con l’intolleranza e la difficoltà di accoglienza, fa poca differenza. Conta il risultato, che - almeno a giudicare dal tiepido applauso ricevuto alla proiezione stampa del film - premia I corpi estranei (in concorso) per il coraggio dimostrato da Mirko Locatelli nel voler portare sullo schermo tematiche di sofferenza: fisica, psicologica e morale. Autore del soggetto con la moglie, Giuditta Tarantelli, e co-produttore con Paolo e Fabio Cavenaghi, Locatelli ha steso sul tappeto sonoro realizzato dai Baustelle una trama dolorosa in cui emergono due direttrici: dignità e pudore.

Al centro del plot ci sono due maschi: un padre e un ragazzo. Due uomini, due anime sole e impaurite che proprio come corpi estranei sono costretti a convivere, a sfiorarsi, per qualche settimana in un ospedale: luogo del dolore e dei congedi da cui entrambi usciranno profondamente modificati.
Antonio (interpretato da un maturo Filippo Timi), è un giovane padre ruvido ma affettuoso che dall’Umbria sale a Milano per sottoporre ad un delicato intervento chirurgico il più piccolo dei suoi tre figli. Jaber (Jaouher Brahim) invece è un quindicenne immigrato in Europa da poco. In fuga dal Nord Africa con la sua famiglia, il ragazzo si trova al capezzale dell’amico Youssef, ricoverato per cure oncologiche. L’incontro-scontro tra Antonio, che guarda con diffidenza mista a ribrezzo gli immigrati (“puzzano e pregano sempre” dice, parlando al telefono con sua moglie), e Jaber – intimorito dai modi schivi e bruschi di Antonio, ma mai impermeabile alla solidarietà nei confronti dell’altro – porterà l’italiano a rivedere le sue priorità.

Perché il nordafricano che si muove come un’ombra nei corridoi dell’ospedale, e per le strade della città, non perde mai di vista l’uomo, rivelandosi decisivo in più di una situazione: dal sostituire la batteria esaurita dell’automobile allo scaricare bancali di frutta al mercato notturno.
Non era facile, sulla carta, raccontare questa storia di eroi silenziosi e sopravvissuti al quale i due attori principali regalano un’anima autentica, tra lunghe pause silenziose e sguardi carichi di significato. “Le parole chiave del film erano dignità e pudore. Dignità di Antonio che lontano dalla famiglia protegge suo figlio – spiega il regista, che nel 2008 aveva debuttato in concorso a Venezia, nella sezione Orizzonti, con Il primo giorno d’invernoe la dignità di Jaber, che nonostante i suoi 15 anni si muove come fosse a guardia del corpo ancora vivo del suo amico Youssef”.

Pudore, quindi. E dignità. Valori sempre più invisibili in occidente, e quasi in via di estinzione nelle grandi metropoli, raccontati con tatto in un film che si limita a dire l’essenziale, senza spiegazioni. E senza mai affondare troppo i colpi, lasciando al ritmo lentissimo delle sequenze tutto il carico emotivo della storia. Una scelta voluta, quella di Locatelli, che ha raccontato i personaggi “come fossero i protagonisti di un documentariotutelando i loro corpi, i loro sentimenti, i loro rapporti, quando si scrutano, si odiano, si aiutano o stanno fermi ad aspettare nella speranza che qualcosa attorno a loro possa cambiare”.
Buona la prova di Filippo Timi, ruvido e stropicciato, nei panni del giovane padre che difende con le unghie e con i denti il suo bambino: lo tiene in braccio, gli cambia il pannolino, lo imbocca, e gli fa le facce buffe per farlo ridere.

Un lavoro di preparazione full immersion per l’attore, che ha fatto passare in secondo piano il lavoro di costruzione del ‘suo’ personaggio. Delicatissimo “gestire un bimbo piccolo che non recitava” spiega l’attore che naturalmente si è dovuto ‘limitare’ “a interpretare la parte, assecondando il bambino, catturandone gli sguardi e l’attenzione, ogni volta”. Fondamentale, nel film, anche l’idea del viaggio: entrambi i protagonisti, infatti, arrivano in ospedale da luoghi geograficamente distanti. Situazione che rende più fragili gli adulti, soprattutto gli accompagnatori dei malati, spesso costretti a vegliare i loro cari senza nessun tipo di supporto, quasi abbandonati a loro stessi. Sfumature psicologiche e derive emozionali che il film rimanda con apprezzabile efficacia.


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