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lunedì 23 settembre 2024
di Claudio Fontanini
IL TEMPO CHE CI VUOLE
Francesca Comencini omaggia il padre regista in un film intimo e doloroso
Un padre e una figlia, il cinema e la vita, l’arte del ricordo e il potere dell’immaginazione. Presentato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia, Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini è un racconto intimo e personale che omaggia la figura del grande regista di Pane, amore e fantasia e Le avventure di Pinocchio
Un padre e una figlia, il cinema e la vita, l’arte del ricordo e il potere dell’immaginazione. Presentato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia, Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini è un racconto intimo e personale che omaggia la figura del grande regista di Pane, amore e fantasia e Le avventure di Pinocchio

Attraverso la giusta distanza emotiva (il tempo che è passato dalla sua morte avvenuta nel 2007) ecco un ritratto autentico, sentito e trasognato che si fa trasmissione di sapere e stile di vita nell’incarnazione di un modo di fare cinema che non ha mai trascurato la realtà. 

Dall’infanzia magica alla dolorosa età adulta. Con quella bambina incantata (Anna Mangiocavallo) che vorrebbe essere Lucignolo e ha paura di vedere una vera balena a Piazza del Popolo col padre e che si ritrova giovane drogata senza prospettiva e col senso di fallimento come scomoda compagnia (la magnifica Romana Maggiora Vergano). 

E mentre sullo sfondo si succedono stragi e rapimenti politici, quel padre schivo, elegante e sempre disposto all’ascolto si trasferisce armi e bagagli a Parigi nel tentativo di salvare la figlia. Fino ad arrivare ad una presa di coscienza adulta che rovescia i ruoli e fa della malattia di Luigi (un quintessenziale Fabrizio Gifuni) l’occasione per prendersi cura di quell’uomo che le ha indicato, attraverso la passione per un mestiere, la direzione verso la quale provare ad essere se stessi. 

Delicato e imperfetto, emozionante e ispirato, il teatro della memoria messo in scena da Francesca Comencini vive di sguardi e tenerezze che si affacciano poi sull’abisso di una solitudine inespressa e impossibile da confessare. E una doppia barba fatta al padre (da piccola in giardino per scherzare e poi da adulta a quell’uomo sofferente) a simboleggiare l’inesorabile passaggio del tempo e la mimesi del corpo

Mentre sullo schermo passano le immagini de L’Atlantide di Pabst a tracciare la rotta della salvezza emotiva (Col cinema potevo scappare dalla realtà racconta Luigi alla figlia). Con divertite venature autobiografiche, qualche caduta di tono (il ralenty con gli sguardi dei drogati a Piazza Navona) e un finale volante che omaggia Chagall.  



In sala dal 26 settembre distribuito da 01     


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