Un bambino conteso, una famiglia dilaniata dalla rabbia e dal dolore, l’ultimo Papa Re disposto a tutto pur di non cedere il potere (Reazionario? Io resto fermo, è il mondo che si muove verso il precipizio dice Pio IX).
Al quarto film a Cannes nelle ultime quattro edizioni, Marco Bellocchio torna in concorso con Rapito, storia vera ambientata a metà dell’Ottocento nel quartiere ebraico di Bologna. Qui, nottetempo, i soldati del Papa irrompono nella casa della famiglia Mortara. Per ordine del Cardinale Inquisitore (un inedito e inquietante Fabrizio Gifuni) vengono a prelevare Edgardo (Enea Sala e Leonardo Maltese 10 anni dopo), il loro sestogenito di meno di 7 anni che secondo le dichiarazioni di una ex domestica era stato segretamente battezzato a sei mesi in punto di morte.
La legge papale è inappellabile: deve ricevere un’educazione cattolica. Tra diritto canonico e leggi del cuore, principi di fede e ricatti emotivi inizia da qui la battaglia, politica e umanissima, della famiglia (il padre è Fausto Russo Alesi, la madre un’intensa Barbara Ronchi) per riprendersi quel figlioletto che a poco a poco, in quel collegio romano dove è rinchiuso, conosce la fede cattolica e sembra non voler più tornare indietro.
Mentre l’opinione pubblica e la comunità ebraica internazionale soffiano sul fuoco della polemica e quel Papa epilettico e luciferino (un magnifico Paolo Pierobon) deve affrontare la decadenza del potere temporale della Chiesa e le truppe sabaude che bussano alla porta.
Melodramma religioso che concilia alla perfezione l’efferatezza del dogma e delle norme alla potenza del sentimento filiale, il nuovo film di Bellocchio è un capolavoro di rigore e misura che appassiona e rievoca la Storia lavorando in sottrazione sulla recitazione (memorabili gli sguardi di tutto il cast più che le parole pronunciate) alternata ad improvvise e fulminanti esplosioni visive (il bambino che tenta l’impossibile pacificazione religiosa togliendo i chiodi dalle mani della statua di Cristo; le tre croci disegnate con la lingua sul pavimento come penitenza) che restano a lungo nella mente e negli occhi dello spettatore.
Veri e propri quadri d’autore (l’arrivo del bimbo a Roma, in barca di notte, con San Pietro sullo sfondo) che rivelano la perfezione assoluta della messinscena e la cura e l’amore per un’Arte che non può essere rinchiusa in piattaforme e piccoli schermi.
Scritto da Bellocchio con Susanna Nicchiarelli in collaborazione con Edoardo Albinati e Daniela Ceselli e liberamente ispirato a Il caso Mortara di Daniele Scalise (Edizioni Mondadori), Rapito è un film denso e potente, un viaggio nel tempo che illumina un’epoca e conferma la libertà creativa di un giovane regista di 83 anni.
Con conversioni imposte (per rivedere il bambino i genitori devono farsi cattolici) e passaggi da libro Cuore (l’arrivo in collegio di Edgardo e la conoscenza con l’irresistibile amichetto ebreo Elia), tesori da nascondere e ammonimenti che terrorizzano (Dio sa tutto, anche i nostri pensieri dice il Rettore a Edgardo che riceve la visita della madre per la prima volta), nascondigli sotto le gonne materne e gli abiti papali, abusi di potere, incubi notturni (la circoncisione di Pio IX), inutili appelli (c’è anche quello del banchiere Rothschild) e Non possumus (la frase di Pio IX doveva essere il titolo originale del film) ad accompagnare lo spettatore verso un finale non conciliante e apparentemente inspiegabile che pone domande e interrogativi oltre la fine dei titoli di coda.
In sala dal 25 maggio distribuito da 01