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martedì 6 dicembre 2022
di Claudio Fontanini
Saint Omer
Il magnifico esordio alla regia di Alice Diop premiato a Venezia con due Leoni
Un fatto di cronaca che diventa una potente riflessione sulla maternità, un miracoloso esordio nel cinema di finzione premiato con due Leoni all’ultima Mostra del cinema di Venezia (quello d’Argento per il gran Premio della giuria e quello del futuro per l’opera prima) e nel quale risplende il potere della parola per stile e contenuto. 

Saint Omer di Alice Diop è un grande film, una di quelle opere che richiedono concentrazione assoluta e grande impegno intellettivo allo spettatore, costretto ad interrogarsi su ciò che vede in un aula di tribunale senza il classico diversivo del campo e controcampo del film giudiziario. 

Lunghissimi piani sequenza, camera fissa puntata in modo ossessivo su chi depone in aula e chi ascolta, sguardi carichi di sottotesto e ai quali si cerca di dare un senso attraverso l’unica domanda alla quale rispondere: perché? 

Perché la giovane studentesse africana naturalizzata francese (Guslagie Malanda) ha ucciso la figlioletta di 15 mesi gettandola in acqua mentre saliva l’alta marea? Perché una scrittrice (Kayije Kagame), a sua volta figlia di una senegalese e incinta di 4 mesi (ma forse nessuno lo sa) assiste a quel processo? 

Nella tragedia di questa Medea africana (nel film appare una sequenza del film di Pasolini del ’69 con la Callas) che sublima il reale (Marguerite Dumas, richiamata nella lezione universitaria) per farsi portatrice dell’indicibile mistero di essere madre, vengono a contatto ricatti affettivi e stregonerie, ricordi e sortilegi in 120’ (troppi) di caccia alle streghe e alle autentiche responsabilità morali che si celano dietro l’immagine dei mostri (Lo siamo tutte ma  terribilmente umani dice nell’arringa finale l’avvocato difensore che sancisce la catena inestricabile madri-figli citando le cellule chimere). 

Ispirato ad una vera vicenda giudiziaria (la Diop assistette al processo nel 2016 e i dialoghi del dibattimento sono quelli dei verbali) e intriso di flussi di coscienza e filosofia del linguaggio (Wittgenstein), Saint Omer (il nome del comune nel dipartimento di Calais che ospita il processo) vive di contrasti che si fanno avvicinamenti e di distanze da colmare nel nome della pietà se non dell’amore. 

In una spirale di menzogne travestite da educazione e gentilezza (bellissimo il dialogo tra la scrittrice e la madre dell’imputata) che alla fine tratteggiano la storia di una donna fantasma in una discesa agli inferi della quale sono in molti ad essere colpevoli. 

Spiazzante e quasi fastidioso all’inizio per l’insistenza nelle inquadrature fisse, Saint Omer si rivela un’opera preziosa e rigorosa, capace senza retorica e moralismi di emozionare con la forza di interpretazioni magnetiche e aggiornare il mito alla contemporaneità. 

In sala dall’8 dicembre distribuito da Minerva Pictures        


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