Un film sospeso nel tempo e nello spazio, un viaggio nell’inconscio che rievoca paure ataviche e i thriller anni ’90. Dopo La ragazza nella nebbia, il debutto di due anni fa dietro la macchina da presa che gli è valso un David di Donatello come miglior regista esordiente, Donato Carrisi alza il tiro con la sua opera seconda, tratta ancora una volta da un suo romanzo omonimo.
Con L’uomo del labirinto vanno in scena sogni che diventano incubi e antidoti mentali, testi apocrifi e narrazioni speculari, specchi che segnano il tempo e allucinazioni indotte in un gioco di scoperte e rivelazioni che punta sull’accumulo più che sulla linearità.
Ed ecco una doppia indagine, condotta da due uomini agli antipodi, che procede attraverso depistaggi e vecchie promesse da mantenere. Da una parte c’è un profiler, il Dott. Green (Dustin Hoffman) che in un letto d’ospedale interroga una donna (Valentina Bellè) riapparsa dopo essere stata rapita 15 anni prima; dall’altro Bruno Genko (Toni Servillo), un detective sciatto e in lotta contro il tempo (è malato e un medico gli ha comunicato che gli restano due mesi di vita) deciso a mantenere la promessa fatta anni prima ai genitori della ragazza che lo avevano pagato per ritrovarla.
Con una caccia mentale più che fisica che incrocia un mostro zoomorfo con la testa di un coniglio e un vecchio sacrestano che ha perso la fede, un uomo con le labbra saldate, un ufficio metafisico delle persone scomparse e una vecchia e inquietante bambinaia che rieduca bambini scomparsi.
Ambientazione indefinita (il film è stato interamente girato a Cinecittà), colonna sonora martellante e porte che aprono misteri accompagnano per 130’ (troppi) questo thriller claustrofobico e confuso che non mantiene le promesse. Un vero e proprio viaggio all’inferno, con l’ispettore Genko alle prese con l’invisibile e con un improbabile resurrezione (o forse no) nel pasticciatissimo finale aperto.
Coi personaggi definiti spesso da un particolare che non basta a renderne la complessità (Servillo con sigaretta appesa sempre in bocca) e dialoghi di lana grossa (la guerra tra poliziotti è posticcia e poco credibile). Per rendere L’uomo del labirinto davvero spaventoso ci volevano una mano più leggera e uno stile più evocativo, sfumato e meno saturo di simboli.
Così i personaggi (e gli attori) del film finiscono per naufragare nel mare dell’inconsistenza, i colpi di scena risultano più confusionari che sorprendenti e la messinscena non favorisce la tenuta dell’insieme. Autore, regista e produttore, l’onnivoro Carrisi (Il mio scopo è sempre stato scrivere romanzi che sembrano dei film e fare dei film che assomigliano a un romanzo) dichiara il suo amore per il film di genere anni ’90 ma qui sembra disperdere un bel patrimonio narrativo (l’intento era quello di una sorta di Seven all’italiana) e non riesce mai a seguire le orme dei suoi maestri (Demme, Lynch, Fincher).
Perché la cornice non basta se manca la pennellata d’autore e così questo thriller di anime perse risulta alla fine sfocato e poco convincente. Il cast a disposizione (peraltro mal sfruttato) non basta a mascherare il netto passo indietro rispetto al brillante esordio di due anni fa. La conferma che al cinema l’opera seconda sia la più difficile da superare a pieni voti.
In sala dal 30 ottobre distribuito da Medusa