Due facce, due vite. C’è un prima e un poi nell’esistenza di Jacek (l’ottimo Mateusz Kosciukiewicz), bizzarro e anticonvezionale polacco che lavora in un cantiere edile per la costruzione della statua del Cristo più alta del mondo (esiste davvero a Swiebodzin), ama l’heavy metal e il suo cane e sta per chiedere la mano della sua fidanzata Dagmara (Malgorzata Gorol).
Dopo che un grave incidente sul lavoro e la prima operazione di trapianto facciale eseguita in Europa (evento reale accaduto al Centro Oncologico di Gliwice) la rinascita non sarà facile tra parenti serpenti, media all’assalto e l’amore che cambia direzione. Orso d’Argento all’ultimo Festival di Berlino, Un’altra vita di Malgorata Szumowska è uno strano film che tenta di miscelare Dentro la maschera e Le onde del destino.
Eroe romantico circondato da una natura selvaggia, Jacek è un provinciale che sogna la libertà (vorrebbe emigrare in Inghilterra) e finisce prigioniero di una Polonia primitiva e intollerante ammantata da una fede cattolica svuotata di senso. Ed ecco quel capellone gioviale e positivo che al bar chiamavano Gesù trasformarsi per la comunità in uno spaventoso emarginato. Perché basta un volto sconosciuto (lode al trucco di Waldemar Pkromski) a cambiare le regole del gioco e se persino la madre lo respinge (Quello non è mio figlio e poi Dio lo riconoscerà con la faccia di un altro? domanda preoccupata al parroco della chiesa) figurarsi la comunità intera.
Solo la sorella minore (Agnieszka Podsiadlik) gli sarà accanto perché rivede il lui quello che lei ha perso (la possibilità di fuggire da quella famiglia disfunzionale e coercitiva) sognando la sua rivincita morale.
Aperto da una caustica corsa ai saldi natalizi in intimo, Un’altra vita parte benissimo tra paesaggi incontaminati (il film è girato nella Polonia meridionale) e tavolate familiari che mettono in scena- tra brindisi all’eutanasia e barzellette razziste- l’ipocrisia di un mondo a parte. Con salutari spruzzate di black humour che lasciano via via il passo ad un altro stile di racconto. E gli sguardi malinconici dietro le finestre e davanti allo specchio del protagonista (Sono io si dice cercando di autoconvincersi) che segnano l’attesa e l’impossibile ritorno alla normalità.
Perché la madre di Dagmara gli chiude la porta in faccia mentre lei flirta con altri, non esistono procedure standard per la riabilitazione (lo Stato non intende pagare per intero le cure) e c’è chi tenta su di lui persino un esorcismo credendolo posseduto da Satana. Mentre lo sguardo di quel Cristo che domina dall’alto sembra volgere in un’altra direzione.
Troppo concentrato sulla nuova faccia del suo protagonista il film della Szumowska disperde in parte il potenziale dell’opera. Quasi accontentandosi di una compassionevole identificazione dello spettatore, il film tralascia quella sana ventata di grottesco che aveva dato aria a tutta la prima parte. Restano il coraggio della critica al cattolicesimo puritano (si veda la sequenza della confessione di Dagmara) e la sapiente descrizione della provincia polacca tutta tradizioni e radici culturali ma poco attenta all’altro e concentrata solo sulle apparenze.
In sala dal 24 aprile distribuito da Bim e Movies Inspired