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lunedì 31 dicembre 2018
di Claudio Fontanini
VAN GOGH- SULLA SOGLIA DELL’ETERNITA’
Un monumentale Willem Dafoe in un film alla ricerca di luci e sensazioni
La storia di un uomo in cerca di calore e calori, un viaggio in soggettiva sull’arte della creazione e la sua sofferenza, una vera e propria esperienza cinematografica che invita, attraverso lo sguardo, a guardare altrove. Dimenticate le solite biografie: il Van Gogh di Julian Schnabel è il primo film su un pittore diretto da un pittore che intende mostrare dall’interno la fatica fisica e la dedizione assoluta che caratterizzano la vita di un artista
La storia di un uomo in cerca di calore e calori, un viaggio in soggettiva sull’arte della creazione e la sua sofferenza, una vera e propria esperienza cinematografica che invita, attraverso lo sguardo, a guardare altrove. Dimenticate le solite biografie: il Van Gogh di Julian Schnabel è il primo film su un pittore diretto da un pittore e allora, pur attingendo a lettere, leggende e dati storici, il lavoro dell’autore di Basquiat e Lo scafandro e la farfalla intende mostrare dall’interno la fatica fisica e la dedizione assoluta che caratterizzano la vita di un artista. 

Immaginazione e sensazioni più che fatti cronologici insomma col monumentale Willem Dafoe (Coppa Volpi a Venezia come miglior attore e nomination al Golden Globe per il miglior attore in un film drammatico) a incarnarsi, letteralmente, nell’anima e nel corpo (nonostante la differenza d’età) del tormentato pittore olandese morto suicida per un colpo di pistola (o forse no) a soli 37 anni. 

La prima frase pronunciata a schermo buio e ad inizio film dal Van Gogh di Schnabel la dice lunga sulle ossessioni personali e sul percorso di vita compiuto dal genio olandese. Volevo solo essere uno di loro…dice il pittore riferendosi all’impossibilità di far parte ed interagire con una comunità (che sia di amici o di colleghi) che lo faccia sentire parte di esso. 

Allergico a sistemi e teorie, Van Gogh cerca una nuova luce (fuori e dentro di se) e vuole dipingere il qui e l’ora in un rapporto simbiotico con la natura che rivela l’essenza del divino. 
Dopo aver conosciuto Paul Gauguin (Oscar Isaac) ed essersi trasferito da Parigi ad Arles, nel Sud della Francia, vedremo Van Gogh alle prese con i fantasmi del suo inconscio in una discesa agli inferi che regalerà solitudine e capolavori, paure e redenzione artistica. 

Con Van Gogh che si sente distante da tutto quello che lo circonda (a ricordargli cos’è una famiglia c’è il fratello Theo, un mercante d’arte, che lo sostiene finanziariamente da lontano e arriva all’ospedale a dargli conforto per poco tempo) e che trova nella pittura la gioia nel dolore e l’estasi assoluta (Voglio perdere il controllo) che lo porta persino a dimenticare il suo nome. 

Perché ci si può sentire morti dentro se non si può osservare da vicino e dare forma a un paesaggio piatto di fronte al quale Van Gogh vede, letteralmente, l’eternità. Con la consapevolezza che confina con la follia e che lo porterà a dire, nel magnifico colloquio col prete che lo rimprovera per i suoi dipinti brutti ed angoscianti e lo esamina per farlo uscire dall’ospedale psichiatrico, di essere nato, per volere di Dio, nell’epoca sbagliata. 

Tra calzini bucati e manciate di terra gettate in faccia, visioni che parlano e scolaresche irridenti, tecniche di lavoro (Metti troppi strati di colore, le tue sembrano sculture più che quadri lo rimprovera Gauguin), critici illuminati e camminate nei campi di girasole appassiti nei quali torna a splendere improvvisamente il sole (L’inverno è sempre una minaccia per me) il Van Gogh di Schnabel è un inno alla creatività che altera la dimensione temporale e quella visiva (per potenziare il racconto in prima persona, Schanbel e il direttore della fotografia, Benoit Delhomme, hanno usato lenti a doppia diottria che creano due diverse profondità di campo in un’unica immagine). 

Girato per la maggior parte con la macchina a spalla (usando una speciale impalcatura creata appositamente per permettere la massima flessibilità), Van Gogh (Sulla soglia dell’eternità)è un film di luci e prospettive, in sintesi, che convergono alla definizione di una mente tormentata. 

Emozionante ed autentico, popolato da grandi attori in piccoli ruoli (appaiono Emmanuelle Seigner, Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric e, in un dialogo decisivo, l’ex militare Niels Arestrup col volto tatuato) e pieno di congetture (Van Gogh si sarebbe tagliato l’orecchio come ultimo tentativo per non far partire da Arles l’amico Gauguin), il film di Schnabel forse è sin troppo didascalico in alcuni momenti ma a riscattarli ci pensano la forza, l’urgenza e lo spessore artistico di un Willem Dafoe mai così bravo (se potete non perdete l’edizione originale). 

Io sono i miei dipinti dice Van Gogh in sottofinale e in una sorta di testamento spirituale rivolto alle nuove epoche. Allo stesso modo, con un ipotetico Io sono questo film, Schnabel mette la sua firma su questo atto d’amore per l’Arte che dietro la maschera di Van Gogh rivela quella più intima dell’artista americano.  

In sala dal 3 gennaio distribuito da Lucky Red                   


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