Da giovane e bella (era la protagonista del film di Ozon del 2013) che dopo aver perso in fretta la propria verginità si concedeva a uomini ricchi e maturi, a donna nevrotica e problematica che crede di non esser capace di amare. La bravissima Marine Vacht è il filo rosso che lega quel film a questo Doppio amore (L’amant double), ultima fatica del regista parigino tratta da un racconto di Joyce Carol Oates e che arriva nelle sale italiane a quasi un anno di distanza dal passaggio al Festival di Cannes.
Si comincia con una seduta ginecologica e con l’introspezione vaginale in primo piano che coincide con lo sguardo della protagonista. Quasi un manifesto programmatico e stilistico di un film che cerca di coniugare corpi e sguardi, desideri inconsci, anomalie embrionali ed eccentricità genetiche attraverso una serie di citazioni cinematografiche che omaggiano i thriller erotici di De Palma e Cronenberg (impossibile non pensare a Inseparabili) fino al rimando con La donna che visse due volte di Hitchcock.
Anche se qui, per meglio dire, si tratta di una vera e propria rinascita. Quella di Chloé, fragile anima inquieta costretta a convivere con inspiegabili dolori alla pancia e che su consiglio del suo medico finisce sul lettino di uno psicanalista: il dolce e premuroso Paul (Jèrémie Renier) che ben presto s’innamora di lei. I due vanno a vivere insieme ma quei dolori al basso ventre non cessano.
Tra un gatto amorevole e una vicina di casa che mette il naso negli affari degli altri, quel rilassante ménage sembra non appagare a pieno quell’ex modella che nel frattempo ha trovato lavoro come guardasale di un museo parigino.
Con una madre lontana ma incombente (Jacqueline Bisset) e una spirale di fantasie erotiche insoddisfatte che non trovano risposta tra le mura domestiche (Chi desidera ma non agisce alleva pestilenza), il viaggio mentale di Chloé subisce una brusca frenata durante un tragitto in autobus. Dal finestrino della vettura vede il suo compagno abbracciare un’altra donna. Lui nega. Lei s’interroga. Chi e cosa ha visto? Un sosia? Un gemello?
Inizia da qui un altro percorso terapeutico del quale non sveleremo di più ma che tra realtà fluttuanti e specchi, gravidanze atipiche e strumenti di tortura, dipendenze e potere di seduzione spingono costantemente lo spettatore verso una sorta di disorientamento programmatico del quale Ozon sembra talvolta abusare a colpi di split screen ed incubi più veri del vero . Un film cannibale verrebbe da dire pensando alla spiegazione finale dell’intricata vicenda, che usa (sfrutta?) il tema del doppio per un geometrico e glaciale manuale di sopravvivenza sentimentale.
Con François Ozon che, come fa la sua protagonista nella bellissima sequenza iniziale- dove sale lentamente i gradini di un’infinita scala a chiocciola- si addentra morbidamente con la sua macchina da presa nel mistero della psiche e nelle sue derive. Perché mentire agli altri (e a se stessi) può diventare una prigione dalla quale per evadere è necessario mettersi in gioco fino in fondo. E non è detto che basti perché forse riflesso nello specchio c’è ancora qualcuno che reclama la sua parte di verità.
Nelle sale dal 19 aprile distribuito da Academy Two