Ci sono film così ambiziosi e carichi di premesse che finiscono per implodere sotto i colpi di inquadrature studiate e dialoghi velleitari. E’ il caso di Una famiglia di Sebastiano Riso, secondo film italiano in concorso a Venezia 74 e nel quale il regista di “Più buio di mezzanotte” torna a dirigere Micaela Ramazzotti. Una coppia di poche parole e molta attività sessuale- lui (Patrick Bruel) è un parigino cinquantenne trapiantato a Roma, lei, più giovane è cresciuta ad Ostia e vede in quell’uomo una sorta di padre-padrone al quale ubbidire ciecamente- qualche cena al ristorante, i viaggi in metrò (bella, la sequenza iniziale, di sicuro la migliore del film), una quotidianità periferica che sembra nascondere un passato dal quale si è fuggiti portandone i segni.
Si scopre ben presto però che tutto quel sesso è soltanto lavoro programmato. Vincent infatti, con la complicità di traffichini e medici compiacenti (Fortunato Carlino) vende le gravidanze della compagna dietro lauti compensi di coppie che non possono avere figli. Un amore senza condizioni o piuttosto una dipendenza malata? A giudicare dai comportamenti di Maria (una Micaela Ramazzotti eroica e senza rete uasi sempre in golfino rosa e occhiaie da lacrime) diremmo la seconda, tanto più che la donna, incapace di ribellarsi a quelle procreazioni programmate, decide che è finalmente arrivato il momento di tenere per sé l’ultimo nato. Da qui il film di Riso, fino a quel momento un catatonico melodramma sentimentale, sterza verso un improbabile noir affettivo che culmina in un incredibile e stiracchiato finale.
Ci volevano una mano più leggera e toni più sfumati per questo viaggio nella maternità negata e invece Riso, a forza di primi piani e musiche invadenti, soffoca psicologie e sacrifica il ritmo narrativo a scapito della tenuta dell’insieme. Tra vitamine e spirali, massaggi thailandesi e mele insanguinate, false ecografie e coppie gay (“Abbiamo aspettato per 5 anni l’adozione legale, pensavamo che questo paese potesse cambiare ma non lo farà mai” dice Ennio Fantastichini in procinto di avere dalla coppia il suo neonato), sguardi che fanno paura e giovani sbandate da salvare (Matilda de Angelis), Una famiglia mette troppa carne al fuoco disperdendo le pur nobili premesse.
Grossolano e poco credibile in alcuni passaggi (si stenta a credere all’ispirato a storie vere che appare prima dei titoli di testa), mai emozionante e forzato (la Ramazzotti alla veglia notturna del neonato morto), il film- scritto a sei mani dal regista con Andrea Cedrola e Stefano Grosso- non riesce mai a rendere credibili sino in fondo situazioni e personaggi. Con la Ramazzotti che si sforza di dare anima e sostanza a un ruolo sfuggente e ambiguo e Bruel (una sorta di Antonio Catania francese) costretto ad un perenne sguardo tenebroso in uno dei ruoli maschili più spregevoli degli ultimi anni. Dopo gli applausi e i consensi per il film di Virzì, per il nostro cinema una doccia gelata al Lido. Quattro film in concorso? Troppa grazia…
Nelle sale dal 28 settembre con Distribuzione Bim |