A quattro anni di distanza da Diaz (quattro David di Donatello e tre Nastri d’Argento) e dal doc La nave dolce (premio Pasinetti alla Mostra del cinema di Venezia) Daniele Vicari torna dietro la macchina da presa con Sole cuore amore, titolo ottimista e apparentemente lontano dal suo cinema spigoloso e realistico. Primo film italiano della selezione ufficiale presentato oggi alla Festa del cinema di Roma, il film incrocia le storie e le vite di due donne, vicine di casa a Torvaianica, sul litorale laziale.
Eli (una straordinaria Isabella Ragonese in versione romanesca) ha quattro figli, un marito disoccupato (Francesco Montanari) e un lavoro da barista difficile da raggiungere (due ore tra pullman e metro); Vale (la danzatrice contemporanea Eva Grieco) è una performer che si esibisce in discoteche e feste e vive da sola tra dubbi e sensi di colpa. Sguardi notturni che s’incrociano (quando una va al lavoro, l’altra torna a casa), solidarietà femminile (Eva accudisce i figli di Eli durante il giorno) e le difficoltà materiali della vita in una sorta di anime allo specchio tra sogni infranti e voglia di non arrendersi.
Intimo e pudico, trattenuto e semplice (come il verso della canzone di Valeria Rossi che dà il titolo al film), Sole cuore amore parla di quotidiano e di precarietà in una sorta di cronaca di vita vissuta che però non sempre centra il bersaglio. Ripetitivo e discontinuo (come l’andamento jazz delle musiche firmate da Stefano di Battista che accompagnano lo spettatore nei viaggi in metro di Eli) e popolato da figure di contorno che descrivono un clima e regalano indizi sul passato delle due protagoniste (Francesco Acquaroli è il proprietario burbero del bar dove lavora Eli, Paola Tiziana Cruciani è la madre di Vale), il film di Vicari promette molto e mantiene poco finendo in una tragicità annunciata che ha però il merito di non essere spettacolarizzata.
Niente da dire sulle intenzioni del bravo regista romano, uno che da sempre crede in quello che fa, ma qui il risultato non è all’altezza dei suoi lavori migliori. Colpa di dialoghi non sempre convincenti, di scene inutili (la doccia sexy di Vale e della sua compagna artistica della quale è segretamente attratta) e di una giusta distanza dai personaggi (quella invocata dall’autore nelle note di regia) che qui rischia di trasformarsi in freddezza emotiva. Alla fine della visione sorge spontanea la domanda: perché all’estero (si veda tutto il cinema di Ken Loach e il magnifico Manchester by the sea visto ieri alla Festa) con soggetti simili sfornano capolavori di essenzialità e credibilità?
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