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martedì 4 ottobre 2016
di Claudio Fontanini
La verità sta in cielo
Occasione mancata per Faenza che riesuma il caso Emanuela Orlandi in un film buono per la tivù
Dal rapimento di Emanuela Orlandi alle vicende di Mafia capitale, da uno dei tanti misteri italiani ancora irrisolti agli oscuri intrecci tra politica, criminalità organizzata e una parte della Chiesa.
Nel tentativo di mettere in scena la piramide omertosa che ha messo in ginocchio la Capitale dagli anni ’80 ad oggi, Roberto Faenza finisce dritto nella spirale della fiction televisiva che nel nome della sommarietà mette in un angolo psicologie e stile di racconto.
Specialista in film di denuncia (nel ’78 “Forza Italia!”, un film di montaggio di feroce satira politica venne ben presto ritirato dalla circolazione subito dopo il sequestro Moro mentre è datato 2011 il film tv sul delitto di via Poma), il regista di “Sostiene Pereira” e “Marianna Ucria” si serve qui di una corposa documentazione (in alcune parti anche inedita) a sostegno del racconto di fatti per i quali usa nomi e cognomi senza ricorrere all’anonimato.

Si comincia con lo scandalo che attanaglia Roma ai giorni nostri attraverso una rete televisiva inglese capeggiata da Shel Shapiro che decide d’inviare in Italia una inviata (Maya Sansa, sprecata) a caccia di scomode verità che viaggiano nel tempo.
Ed ecco l’incontro con una collega di un programma italiano (Valentina Lodovini) metterla sulle tracce di una nuova pista che porta a Sabrina Minardi (un ottima Greta Scarano in versione sexy e disfatta), ex amante di Enrico De Pedis (Riccardo Scamarcio in versione Rodolfo Valentino) meglio conosciuto come Renatino, ovvero il boss della banda dei Testaccini (da non confondere con i rivali della Magliana).

Inizia da qui una sorta di bignami della malavita romana che mette in scena mille fatti di cronaca nera e nomi scomodi, ipotesi e indizi tralasciando spesso i nessi e i raccordi di situazioni e avvenimenti. Tutto troppo veloce e semplicistico con personaggi che appaiono così ridondanti o ingenui da non poterci credere nemmeno per un attimo.
Aperto da una citazione di Oscar Wilde (“La verità è raramente pura e mai semplice”, il film di Faenza (soggetto scritto a sei mani dal regista con Pier Giuseppe Murgia e Raffaella Notariale) ha il merito di rimettere al centro dell’attenzione la vicenda di quella quindicenne scomparsa nel nulla a Roma in pieno centro il 22 giugno del 1983 (il 6 maggio del 2016 la Corte di Cassazione ha convalidato l’archiviazione) ma lo fa senza la forza del cinema di denuncia ispirato e concreto.

Quello che vorrebbe essere insomma un affresco di vita nazionale becera e corrotta, si rivela in realtà un noioso e prevedibile elenco di fatti che non si fanno mai cinema. Lo Ior e Roberto Calvi, Ali Agca (l’attentatore di Papa Woytyla) e Casimir Marcinkus (il padre era l’autista preferito di Al Capone…), il crack del Banco Ambrosiano e la sepoltura di De Pedis- uno che aveva “più amici in Vaticano che santi in Paradiso”- nella cripta della Basilica di Sant’Apolinnare, depistaggi e false confessioni (“Nel paese delle menzogne per arrivare alla verità bisogna incontrare molti bugiardi”), uno stuolo di prelati ambigui e il corpo di Emanuela Orlandi forse seppellito sotto una costruzione a Torvajanica.

Con quel finale che ipotizza una trattativa tra Vaticano e Magistratura e invita a dare alla luce un dossier segreto che potrebbe far luce sull’intera vicenda.
Si legge Faenza ma vengono in mente i vecchi film di Giuseppe Ferrara o quelli più recenti di Renzo Martinelli e per il bravo regista torinese non è certo un bel paragone. Occasione mancata.
Nelle sale da 6 ottobre con Distribuzione 01 

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http://www.01distribution.it

 
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