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lunedì 20 ottobre 2014
di Claudio Fontanini
Gone Girl da applausi
Al Festival di Roma ecco il capolavoro tanto atteso: lo firma il maestro del brivido David Fincher
Entrare nella testa di una donna per capirne sentimenti intimi e desideri nascosti. Impresa quasi impossibile per chiunque, figurarsi per il ‘povero’ scrittore newyorkese Nick Dunne (un ottimo Ben Affleck) alle prese con la crisi del suo matrimonio dopo cinque anni di splendida convivenza e, soprattutto, con le perversioni e i giochi intellettuali di una delle più conturbanti manipolatrici mai viste su grande schermo dai tempi di Basic instinct.
Accolto da una vera e propria ovazione alla proiezione riservata alla stampa, Gone girl è il capolavoro che il Festival del Film di Roma aspettava.

Diretto da un David Fincher in stato di grazia, il film- passato nella sezione Gala e tratto da L’amore bugiardo il libro di Gillian Flynn che ha venduto sei milioni di copie, è un cortocircuito narrativo che mette in scena, attraverso i rimandi di generi assai diversi tra loro, il rapporto di coppia e le sue derive scandalistiche quando i media sentono odore di prede.
Perché alla vigilia del quinto anniversario di nozze Amy (una meravigliosa Rosamund Pike che si candida sin d’ora all’Oscar) scompare senza lasciare tracce? Cosa si nasconde dietro la fuga (o l’omicidio?) di quella splendida donna che in apparenza sembra avere tutto e in realtà cova un’efferata vendetta verso chi la giudica dal suo alter ego (una perfetta principessa della casa e del bon ton protagonista di libri per bambini)?

Fincher scopre a poco le carte in una sorta di gioco di specchi senza soluzione di continuità che a furia di riflessi dorati e accecanti finisce per confondere la realtà.
Con quel marito campagnolo e ondivago che finisce per essere il sospettato numero uno con indizi a carico che si sovrappongono e prove in apparenza schiaccianti.
Romantico e avvincente, indecifrabile e problematico, Gone girl finisce per essere un magnifico trattato cinematografico sull’arte della menzogna e sul bisogno di condividere un sentimento sfuggente come l’amore.

Tra nuvole di zucchero e roseti morenti, ex fidanzati ambigui e accordi prematrimoniali, sesso sfrenato e pistole a San Valentino, buste piene di indizi e una caccia al tesoro nella quale in palio c’è la salvezza dell’uno o dell’altro, Fincher tiene inchiodato lo spettatore alla poltrona per due ore e venticinque minuti in un film che parte come una storia d’amore, si trasforma in un thriller e finisce per diventare una convincente e spietata satira di costume.
Una vera e propria anatomia di un matrimonio con colpi di scena ripetizione e un continuo senso di spiazzamento che mette a disagio nel tentativo d’inseguire false piste. Pregiudizi, discriminazioni, identità sessuali e famiglie agli antipodi con Fincher e i suoi protagonisti che giocano come il gatto col topo coi pregiudizi finendo per inoltrarsi nei meandri più oscuri della cultura mediatica contemporanea. Perché apparire significa esistere e ribellarsi, forse, è impossibile.


 
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